WOHNEN 2000: il controllo della trasformazione. Tre esempi di sperimentazione formale e funzionale

L’evoluzione della dimensione tecnologica del costruire nella società moderna non ha avuto uno sviluppo lineare e neppure una crescita progressiva e continua, per un complesso assai intricato di ragioni e di condizionamenti di cui risulta utile prendere atto, al fine di comprendere le ragioni di un’alienazione che ha portato ad un totale scollamento tra bisogni reali e soluzioni tecniche ad essi rivolte (perlomeno nelle intenzioni).
La rivoluzione che negli anni Venti e Trenta avrebbe dovuto portare l’applicazione di tecniche innovative per la produzione e l’assemblaggio dei componenti edilizi, non assunse in realtà la pregnanza sociale e culturale che ci si aspettava, a causa di una mancata sedimentazione culturale delle sperimentazioni, di un assorbimento diffuso delle stesse e della mancata introduzione su vasta scala dei modelli-prototipi presentati.
Il progressivo allontanamento concettuale da un ampio sistema di confronti tra elementi tecnici, aspetti formali e aspetti funzionali ha portato l’architettura a ricadere in sterili tecnicismi, e ad affidare all’innovazione tecnica una autonomia espressiva e una capacità di autolegittimazione che non le sono proprie.
Di qui la sempre più veloce obsolescenza di linguaggi, unita alla pluralità delle “mode” che si contendono oggi il panorama architettonico, portano a riconoscere alla tecnologia uno stato di profonda crisi, per l’assenza di modelli evolutivi chiaramente riconoscibili, e in quanto frantumata in realtà profondamente diverse l’una dall’altra, al cui interno regnano incertezze ed equivoci sostanziali.
Se si considera l’attuale panorama delle trasformazioni in atto nel settore architettonico e delle tecnologie che sottendono queste ultime, alla luce di quel diffuso disagio nei confronti dello spazio “costruito” che nella propria condizione di “urgenza” investe la contemporanea dimensione progettuale dell’abitare, appare quantomai necessario il recupero di una dimensione etica dell’intero processo creativo che genera il progetto e che ne inquadra i contenuti.
E’ considerazione ormai comunemente accettata che l’evoluzione tecnologica ha segnato questo secolo in modo così profondo e radicale da configurarsi come un fondamentale paradigma di rappresentazione epocale, proponendo una trasformazione culturale che viene esaminata con atteggiamenti e valutazioni a volte contraddittori, e che prospettano considerazioni sempre diverse.
Da un lato emergono sentimenti di diffidenza, sospetto, paura e impotenza, rispetto ai meccanismi della tecnologia, che spesso dimostrano di poter sfuggire al controllo della comunità, per perseguire obiettivi di profitto, di sfruttamento intensivo delle risorse, a sostegno di modelli di vita e di sviluppo fondati sui ritmi accelerati e frenetici connessi alle odierne condizioni dell’abitare, e legati peraltro ad un concetto di consumo non più attuale. Dall’altro alla considerazione dell’ineluttabilità dell’affermarsi di un modello di produzione sempre più sofisticato e complesso, e spesso fine a sè stesso, si affiancano esasperati ed isolati appelli al ripristino di consuetudini e prassi tipiche della fase pre-industriale, nostalgici confronti e ripensamenti riguardo ad un improponibile ritorno ad equilibri perduti, a modalità di produzione artigianale fuori dalla realtà economica, politica e sociale del nostro tempo.
L’intenzione di agire sul disarmonico corpo disciplinare della progettazione, e la ricerca di quel centro di riferimento alla cui perdita Sedlmayer (1948) imputava l’incapacità dell’architettura di rendersi espressione dell’umano nella sua accezione più completa, mette in evidenza la necessità di allargare l’orizzonte culturale in cui si vuole orientare una rilettura dell’intero processo creativo architettonico, in quanto atto di sintesi tra tecnica, forma e funzione.
Principio guida di questo sforzo deve essere la riassegnazione alle tecniche esecutive, e quindi alla tecnologia che ne studia le caratteristiche, la storia e l’evoluzione, di un ruolo “quantomeno paritetico rispetto alle implicazioni di carattere funzionale e formale” (Nardi, 1994, p.2). Uscendo dalla convinzione ormai anacronistica della possibilità di un’indagine dell’attuale scenario architettonico secondo la triade vitruviana di venustas , firmitas ed utilitas , bisogna prendere in considerazione la complessità eterogenea dei saperi e delle competenze specialistiche del settore produttivo, e concentrare l’attenzione sul rapporto inscindibile di materiali, tecniche e forma.
La difficoltà infatti consiste soprattutto nel fatto di non conoscere i meccanismi di connessione tra questi elementi: operazione questa che è culturale prima ancora che tecnica.
Si sta avvertendo sempre più il bisogno di recuperare per il progettista un bagaglio culturale che sappia essere transdisciplinare, e di consolidare la capacità dello stesso di leggere la pluralità delle espressioni possibili (attribuendo a questo termine una doppia valenza di “codice stilistico” e di “codice linguistico”) come la migliore delle opportunità al fine del consolidamento della propria poetica e della riappropriazione della propria pratica professionale.
Indagare la cultura del progetto, o meglio, ritrovare “la cultura come progetto” (Bertoldini, 1993, p.76), significa dunque riqualificare il processo ideativo come momento di confronto dialettico tra una capacità individuale e un patrimonio culturale collettivo che, nella dimensione di tradizione, recupera quel legame tra atto tecnico e contesto culturale che contraddistingue ogni fase dell’operare progettuale.
In questo senso una nuova prospettiva etica ed estetica in cui inquadrare il dibattito architettonico può consentire di considerare la pregnanza culturale del costruire secondo la giusta ottica, mettendo in relazione i contenuti estetici dell’architettura con l’ambiente sociale, e riuscendo così a definire il “reale ruolo ecologico” della stessa (Nardi, 1994, p.2).
L’utilizzo del termine “ecologia” riferito alla cultura del progetto, al di là del tono allarmistico che esso assume oggi in relazione alla crescente preoccupazione per la tutela del patrimonio naturale e per la scarsità delle risorse, deve proprio essere sottolineato nella dimensione del rapporto sinergico che la fase progettuale instaura con il sistema contestuale che la supporta e la informa.
L’interesse verso le connessioni profonde che l’architettura possiede con il luogo, inteso nelle sue qualità di sito fisico-geografico meteorologicamente ed orograficamente condizionante, passa quindi attraverso la comprensione delle condizioni al contorno che fondamentalmente sono di origine sociale, misurate su esigenze e aspettative collettive che rappresentano una precisa cultura materiale diffusa, e che contemporaneamente si offrono come “modalità di interpretazione del proprio tempo rispetto alla storia” (Nardi, 1994, p.3).
Le considerazioni fatte delineano il profilo di una attività progettuale che, oggi più che mai, deve assumere le connotazioni di scelta e di interpretazione, deve riconoscersi al contempo oggetto e strumento d’indagine di un operare tecnico che sembra disorientato dal frazionamento attuale del sapere in una serie di competenze specifiche tra loro non comunicanti.
E’ chiaro dunque che le lacune createsi per la crescente autoreferenzialità del processo creativo architettonico si devono colmare alla luce di un nuovo “dialogo” tra tecnologia e cultura, recuperato attraverso l’impegno metodologico di una lettura sinottica delle diverse realtà che informano il progetto alle soglie del XXI secolo.
Per quanto riguarda il settore della produzione, ad esempio, l’attenzione del dibattito deve soffermarsi proprio sui presupposti della complessità del panorama architettonico odierno, deve incentrarsi sull’analisi e sulla gestione delle contaminazioni tra la dimensione artigianale e quella industriale dell’intero processo costruttivo, e in questo sforzo favorire la diffusione di una nuova consapevolezza tecnica.
Il primo passo verso una mirata responsabilizzazione del progettista nella dimensione “sociale” del proprio operare sembra la definizione di una nuova cultura materiale, che riesca a radicare in sé il senso di trasformazione continua che è insito nell’agire progettuale dell’uomo, all’interno del suo naturale equilibrio con l’ambiente. Questo porta inevitabilmente a riconsiderare le potenzialità e le implicazioni della sperimentazione nei confronti di un delicato rapporto tra tecnologia e architettura che, all’interno del binomio progetto-contesto, deve affidare all’innovazione il doppio ruolo di sintesi propositiva di codici tecnici e di materiali culturalmente sedimentati, e di risposta critica a nuovi bisogni collettivi e alle nuove spinte del settore produttivo.
Solo all’interno di una rilettura del prodotto architettonico quale sintesi di fine, mezzi e “luogo” (inteso come ambito fisico, sociale e culturale) è possibile dunque restituire coerentemente la figura dell’architetto ai linguaggi complessi del progetto (Magnani,1987), e riconsiderare quest’ultimo all’interno di una cultura della complessità che insegna ad “ecologizzare” i propri gesti, a riferirli cioè a quel sistema di relazioni profonde che ne legittima le motivazioni e i contenuti.

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