Riappropriazione culturale e scientifica del legno

La causa della sospensione, cominciata ai primi decenni del novecento, sono molteplici: certamente l’irruzione del cemento armato e del laterizio e la conseguente quasi monocultura, che tali materiali hanno provocato, è stata determinante.
Anche la presunta superiore durabilità di questi materiali nei confronti del più deperibile legno è stato motivo di abbandono del suo uso strutturale.
L’insufficiente coltura dei boschi e del territorio – specie nel secondo dopoguerra, quando la parola d’ordine è stata cementificare – e la necessità di importare legname per tutti gli usi, salvo quella di bruciarlo, considerata la diffusione dei boschi cedui, sono stati ulteriori freni al progredire dell’impiego del legno che pure, nel passato, fino appunto ai primi decenni del novecento, aveva avuto in Italia ragguardevoli applicazioni nella grande ingegneria costruttiva, con punte significative anche durante il fascismo, poiché era considerato materiale autarchico.
Questo disinteresse al legno, anche se solo per qualche generazione, ne ha interrotto la conoscenza e si dunque dovuto ripartire da zero.
Certamente si è guardato a come il legno si veniva proponendo all’estero ed anche da noi si sono finalmente realizzati i primi stabilimenti per il legno lamellare (1975) e – soprattutto per la nuova cultura del restauro – si è ricominciato a costruire qualche nuovo tetto di legno, nonostante il tetto in latero-cemento fosse totalmente diffuso, anche in montagna, dove il legno era tutt’al più impiegato come rivestimento: rivestite erano le case in muratura, le putrelle di acciaio e le travi in c.a. e le taverne finto-rustico.
In questo periodo venivano smantellate straordinarie coperture lignee di palazzi storici e solai di legno: basti pensare che anche i solai gotici della Cà d’Oro a Venezia sono stati sostituiti col latero-cemento!

Recuperare dunque la cultura del legno non è facile.
Prima di poter chiudere la forbice del gap tecnologico, ci vorranno anni.
Ricordo la mia ingenuità, quando nel ’78 eseguii il mio primo collaudo di travi di legno lamellare di grande luce (42 m).
Mi ero recato in cantiere con flessimetri per c.a..
Dopo alcune tappe di carico dovetti sostituire ai flessimetri centesimali la stecca rigida del metro da carpentiere a causa degli abbassamenti centimetrici e non millimetrici!
O quando sperimentavo travi lignee appoggiate su coltelli per travetti in c.a. che “entravano”, per rifollamento, nel legno, fin che capii che gli appoggi per travi di legno dovevano essere di grande raggio.
E potrei continuare con episodi ed aneddoti, ma solo per affermare che sbagliando, abbiamo imparato e che non è stato facile svincolarsi dalla monocultura del c.a., a dimostrazione che la conoscenza ha un prezzo e che non bastano libri o guardare cosa fanno i vicini.
Abbiamo capito che fra legno e legno lamellare c’è differenza, se non altro perché il lamellare appartiene alla scienza delle costruzioni, mentre il legno alla tecnologia costruttiva, nel senso che il primo si può calcolare perché ha un coefficiente di dispersione molto contenuto e quindi riferimenti di resistenza meccanica certi, mentre il massiccio è troppo disomogeneo (coefficiente di dispersione intorno al 20% ed ha quindi più bisogno dell’esperienza del carpentiere e delle regole costruttive, piuttosto che del computer), ma soprattutto abbiamo capito che il legno, massiccio o lamellare, necessita di un proprio disciplinare e come non sia immediatamente utilizzabile quello del c.a. o dell’acciaio.
La differenza, che sembrerebbe ovvia, non è invece di facile assimilazione.
Ragionare con nuovi modelli concettuali, come l’attenzione al comportamento d’insieme e spaziale delle strutture lignee o mettere grande attenzione ai nodi di confluenza delle aste, ai problemi di instabilità e di deformazione, dato il relativamente basso modulo di elasticità, ma soprattutto calcolare materiali affetti da notevoli dispersioni, non è né facile, né immediato.
Esagerando mi sento di dire, che se una struttura di legno è ben eseguita – ed ovviamente concepita – difficilmente andrà fuori servizio, anche se con sezioni sottodimensionate.
Già Palladio, che di legno si intendeva, richiamava l’attenzione ai nodi fra le aste e mai sulle aste, insistendo sulla confezione dei nodi, più che sulla sezione degli elementi strutturali.
Oggi si cominciano a vedere i frutti di questa nuova esperienza, con egregie realizzazioni.
Permangono ancora sacche di resistenza culturale e scientifica, assai dure da morire e che si superano col tempo e ormai fidando nelle nuove generazioni di progettisti.
Una di queste sacche di resistenza, soprattutto culturale e scientifica, è la pretesa che il legno si comporti come l’acciaio ed il c.a., cioè – mi si passi l’espressione – che “stia fermo”!
Ma soprattutto che il legno non fessuri!

Alla convivenza con le fessure e addirittura, per usare il titolo di un mio recente scritto, all’elogio della fessura, è dedicato un volumetto della collana “Conoscere il legno per progettare e costruire”. Per capire questo mio enfatico atteggiamento nei confronti delle fessure, bisogna considerare la perimetrazione, ovvero i confini tecnici assunti.
Tutti i discorsi sono infatti riferiti al legno massiccio per impieghi strutturali e non al legno per impieghi da falegnameria, per serramenti, mobili o pavimenti.
Parlo di fessure di travi, pilastri, aste, arcarecci, terzere, elementi cioè che concorrono alla stabilità e sicurezza strutturale, non all’arredo o alle finiture.
Se non si concorda e condivide questo ambito e ancora si fa confusione pensando a generici impieghi del legno, ogni sforzo sarà vano.
Giudicare il legno strutturale con criterio da falegname è fuorviante e riduttivo, ma questo equivoco è alla base di ogni contestazione e purtroppo anche alla base di redazione di norme, in particolare quelle che riguardano la qualità ed i criteri di accettazione del legno strutturale.
La qualità del legno va giudicata in base alla prestazione richiesta: per l’impiego strutturale il legno deve avere in primis requisiti fisico-meccanici definiti e certificati. L’aspetto è caratteristica secondaria – non dico superflua – che può concorrere alla resistenza, ma non è detto che un “bel legno”sia anche resistente.
E comunque il “bello”è ancora tutto da imprigionare in categorie universali o nomotetiche, mentre si può trovare accordo sulle categorie prestazionali e meccaniche.
Ed il contenzioso si innesca sempre laddove il giudizio è soggettivo.
Viceversa, per togliere spazio al contenzioso, servono riferimenti e patti chiari.

* Prof. arch. Franco Laner
Dipartimento di Costruzione dell’architettura
Facoltà di Architettura di Venezia

Articolo tratto da
www.promolegno.com 
 

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