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Indice degli argomenti Toggle Portoghesi e la modernità del baroccoL’architettura PostmodernaCasa Baldi, Roma, 1960Casa Papanice, Roma, 1970La Biennale di Architettura 1980 e la Strada NovissimaCase per lavoratori ENEL, Tarquinia, 1985La Grande Moschea di Roma, 1995Teatro Politeama di Catanzaro, 2001Belvedere le Dalie, Roma, 2019 Paolo Portoghesi è scomparso pochi giorni fa, all’età di 92 anni a Calcata (VT), il piccolo borgo medievale a pochi chilometri da Roma che pullula di artisti e in cui da molti anni si era rifugiato, vivendo avvolto dalla natura al riparo dal chiasso della metropoli. I funerali si sono svolti nella chiesa di Calcata Nuova, intitolata ai Santi Cornelio e Cipriano, da lui stesso progettata e inaugurata nel 2009. Considerato uno dei massimi esponenti del Postmodernismo in Italia e nel Mondo, nella sua lunga e prolifica carriera ha progettato e realizzato numerose opere: torri, chiese, moschee, ville unifamiliare, complessi residenziali. Ho conosciuto il prof. Portoghesi da studente di architettura alla Facoltà “Valle Giulia” di Roma La Sapienza. Correva l’anno 2008: all’epoca insegnava Laboratorio di Progettazione IV. Da lui ho imparato la poetica della curva e l’esempio dei grandi maestri italiani del Barocco e Rinascimento. Ripercorriamone il pensiero attraverso i racconti trasmessi dalle sue principali opere. Portoghesi e la modernità del barocco Paolo Portoghesi (Roma, 2 novembre 1931 – Calcata, 30 maggio 2023) è stato architetto, insegnante e critico e storico dell’architettura e dell’arte. La sua attività è stata premiata con nutriti riconoscimenti in Italia e all’Estero. Autore di numerose pubblicazioni, Portoghesi ha inoltre diretto le riviste “Controspazio”, “Eupalino”, “Materia”, “Abitare la terra”. Dopo la laurea (1957), rimane nella Facoltà di Architettura La Sapienza ove comincia l’attività di insegnamento. Trascorsa una “breve” parentesi al Politecnico di Milano – ove insegnerà per un decennio (dal 1967 al 1977) e di cui fu anche Preside – ritornerà nella sua città natale dove si installerà come Professore, dapprima di Storia dell’Architettura, poi Progettazione Architettonica e, infine, Geoarchitettura a “Valle Giulia”. Nato nel rione Pigna, centro di Roma e cuore del Barocco romano, patria del Borromini e del Bernini, ne rimase profondamente affascinato. E trasse ispirazione dalle opere principali condensandone gli ingredienti in un nuovo linguaggio architettonico capace di superare i limiti estetici del Movimento Moderno. Grazie allo studio del Barocco Romano, in particolare del Borromini, espresso attraverso una nutrita mole di saggi pubblicati, fu tra i primi a criticare apertamente il Movimento Moderno, colpevole di aver cancellato la memoria storica dell’architettura, in nome di una standardizzazione culturale, dell’industrializzazione di massa – “la macchina dell’abitare” – e della lotta all’ornamento, che aveva inaridito la fantasia degli architetti allontanandoli dalla natura in rapporto con l’ambiente. Fin da giovanissimo, ancora studente, indaga le principali figure ed opere del Rinascimento e Barocco, convinto di poterne cogliere la chiave per superare la visione dominante di modernità, che andrà sotto il nome di Postmoderno. La “sensualità intrinseca della curva” divenne l’elemento caratteristico del suo stile. “I maggiori storici della architettura moderna, da Giedion a Zevi e a Benevolo, hanno affermato – dichiara Portoghesi – il ruolo profetico di architetture come San Carlino, Sant’Ivo alla Sapienza, il tiburio di Sant’Andrea delle Fratte e il Collegio De Propaganda Fide, riconoscendone in pieno la ‘modernità’”. “Il metodo storico di Portoghesi“, ha scritto il rinomato storico dell’arte Giulio Carlo Argan, “non consiste nella operazione relativamente facile di trovare Palladio in Aalto o Borromini in Wright, ma nella operazione inversa e più difficile di trovare Aalto in Palladio e Wright in Borromini; ergo nel dimostrare che, dati Palladio e Borromini, non possono non esserci Aalto e Wright e quello che viene dopo fino all’impegno morale, personale dello storico. Si entra così in un ordine di necessità, lo stesso per cui lo storico non può non essere un politico: la poetica non è la premessa, ma la necessità etica dell’impegno sul piano operativo dell’arte“. L’architettura Postmoderna Nonostante in Italia l’Architettura si fosse già posta in aperta polemica alla monotonia creativa del Movimento Moderno, per superarlo ed andare oltre, Postmoderno appunto, è negli USA che il dibattito assumerà rilievo internazionale. Robert Venturi, Charles Moore, Michael Graves e Philip Johnson, sono considerati i precursori nonchè i principali esponenti della Corrente Architettonica del Postmodernismo. Robert Venturi, premio Pritzker 1991 e pioniere del Postmodernismo, nel suo celebre saggio del 1966 (“Complessità e contraddizioni nell’architettura”) dichiara il suo amore per “una architettura complessa e contraddittoria basata sulla ricchezza e sulla ambiguità della vita moderna” che non deve lasciarsi “intimorire dal moralismo puritano del linguaggio dell’Architettura Moderna Ortodossa”. Nel libro del 1972 “Imparare da Las Vegas” (Learning from Las Vegas), ove la Pop Art contaminata di elementi classici assurge ad un nuovo linguaggio, Venturi in aperta polemica con il Movimento Moderno, trasfigura la celebre massima di Ludwig Mies van der Rohe: da “Less is more” (meno è più) diventa “Less is a bore” (meno è una noia). Uno dei suoi primi progetti, casa Vanna Venturi realizzata nel 1962 per la madre a Philadelphia, è riconosciuta universalmente come simbolo e prototipo dell’Architettura Postmoderna. A New Orleans, Charles Moore realizza un gioioso tributo alla nutrita comunità italo-americana, un monumento dedicato alla cultura italiana, dove architettura, urbanistica e geografia confluiscono nei simboli e nelle spazialità romane. La circolare “Piazza d’Italia”, completata nel 1978, è una vivace composizione di forme e ordini classici amalgamati con un gusto moderno – nella scelta dei materiali (acciaio e neon) e negli effetti cinetici (ad es., le foglie d’acanto dei capitelli corinzi sono suggerite dal movimento dei getti d’acqua). Il Portland Building progettato da Michael Graves e completato nel 1982, conduce il postmodernismo a una nuova importanza architettonica. Fino ad allora infatti lo stile era stato adottato perlopiù da clienti privati e opere limitate. L’edificio civico, con la sua grande mole, porta i caratteri postmoderni al centro del dibattito urbano. Philip Johnson, figura eclettica e controversa del panorama architettonico, nella sua longeva carriera ha attraversato una moltitudine di stili diversi. Primo architetto a vincere il Premio Pritzker nel 1979, dopo aver realizzato tra le più celebri icone del Movimento Moderno – emblema di chiarezza formale – quali il Seagram Building e la “Glass House” in accordo ai principi di Van Der Rohe, sul finire della carriera ha fatto una brusca inversione di marcia, orientandosi verso il classicismo. Il grattacielo AT & T Building, terminato a New York nel 1984, con i suoi frontoni ad otto piani, rappresenta il suo personale manifesto postmoderno a grande scala. In Italia Aldo Rossi (Premio Pritzker 1990) e Paolo Portoghesi ne sono i principali esponenti. Nel suo saggio “Le inibizioni dell’architettura moderna” (1974), l’architetto romano pone le riflessioni che saranno da guida per quello che sarà il movimento Postmoderno italiano negli anni a venire. Egli afferma che: “L’architettura postmoderna propone la fine del proibizionismo, l’opposizione al funzionalismo, la riconsiderazione dell’architettura quale processo estetico, non esclusivamente utilitario; il ritorno all’ornamento, l’affermarsi di un diffuso edonismo”. Portoghesi già nel 1960 con Casa Baldi e poi nel 1968 con Casa Papanice sembra anticipare i temi del movimento postmoderno, che vedrà poi la sublimazione con la Biennale di Venezia del 1980 da lui stesso diretta. L’architettura, finalmente libera dalle costrizioni meramente funzionaliste, dai dogmi del modernismo, può tornare a rapportarsi con i luoghi e le persone, caricandosi di estetica. Charles Jencks, architetto, storico e letterato, considerato il padre spirituale del Movimento Postmoderno, così ne parla: “Per definirlo in breve, un edificio postmoderno è in grado di parlare simultaneamente su almeno due livelli: ad altri architetti (…) e ad un pubblico più ampio, o agli abitanti del luogo“. Casa Baldi, Roma, 1960 Casa Baldi è stato il suo primo progetto in assoluta autonomia, realizzato tra il 1959 e il 1961 poco fuori Roma, sulla collina “La Celsa” in zona Labaro. L’abitazione, commissionata per il regista Gian Vittorio Baldi, è considerata insieme alla successiva “Casa Papanice”, esempio e icona dell’architettura post-moderna. Come dichiarato dallo stesso architetto, questa è la sua opera prediletta, assieme alla Grande Moschea di Roma. La completa libertà espressiva concessa all’architetto, nelle scelte compositive dei materiali e formali, gli ha permesso di poter esplorare la sua personale idea di architettura sotto il profilo tecnico ed estetico, emancipandosi dai vincoli espressivi del Razionalismo e, come da lui stesso confessato, in aperta polemica con essi, un “atto di ribellione” contro l’egemonia globale dell’International Stylez. “In realtà nella collina dove sorge Casa Baldi esisteva una cava di tufo, che però era stata chiusa. Mi sono posto il problema di dare una risposta al luogo, caratterizzato sul versante verso il fiume da un’alta spalliera di tufo e dal protagonismo del rudere: i resti di un sepolcro dove si mescolavano parti di tufo rosso, che proveniva dalle cave vicine, e di quello giallo che era invece delle cave di Riano…”. Con queste parole Portoghesi afferma con veemenza la sua idea di architettura che passa dalla riscoperta del valore dei luoghi: prodotto del Genius loci, in stretto rapporto con il contesto e l’ambiente. Uso del rivestimento in tufo a vista, pareti curve (concave e convesse), trabeazioni aggettanti. È evidente una spiccata sensibilità barocca nell’articolazione dei setti murari e nella complessità degli spazi interni da loro generati. L’architetto romano ha curato il progetto a tutto tondo, disegnando anche parte degli arredi. La casa viene ampliata nel 1971, con l’aggiunta di un ulteriore livello, su progetto dello stesso Portoghesi che, di recente (2019) ne ha curato la conversione in Creative Center della Casalgrande Padana, rinomata azienda italiana del settore ceramico, con funzione di showroom. Casa Papanice, Roma, 1970 La ricerca di un nuovo linguaggio architettonico – in rotta col Movimento Moderno per riconciliarsi con la storia – cominciata da Portoghesi un decennio prima con Casa Baldi, giunge a maturazione con questo villino signorile costruito nel 1970 in collaborazione con l’ingegnere Valerio Gigliotti (assieme al quale, nel 1964, aveva fondato uno studio), nei pressi della via Nomentana a Roma. Casa Papanice, è considerata l’icona del Postmodernismo italiano. Una delle più belle dimore romane, celebre in tutto il Mondo, e tanto amata dal cinema (com’era nelle intenzioni del committente Pasquale Papanice che, a fronte di quest’unico obiettivo, aveva lasciato totale libertà all’architetto). Qui, infatti, furono girati numerosi film. Tra i più noti quello di Ettore Scola del 1970 “Dramma della Gelosia: tutti i particolari in cronaca” con Marcello Mastroianni e Monica Vitti (che si vede in foto tra le “canne”). Img gentilmente concessa da Archivio Casa Papanice© L’edificio, per ammissione dello stesso Portoghesi, è un rifiuto della città: dall’esterno risulta quasi invisibile, celato dalla strada per mezzo della fitta vegetazione antistante. La caratteristica trama di tubi affiancati che riveste l’edificio è ispirata al Borromini “prendere una forma – nel suo caso il triangolo – e applicarla sistematicamente. Io scelsi il cilindro, che poi è alla base di tutto”. Quella costruzione nasceva da un’idea razionalista: “la Casa Schröder di Rietveld, trasformata in un edificio barocco. Sostanzialmente è la “curva” che io poi ho perseguito per tutta la vita, una mia preferenza in senso assoluto”. Il terreno che doveva ospitare l’abitazione era popolato da antichi e maestosi alberi. Portoghesi non solo decide di non abbatterli, ma li valorizza. Il progetto della casa, infatti, è costruito intorno a loro: “le finestre guardano verso i tronchi di questi alberi di modo tale che vivendo la vita quotidiana dentro la casa si abbia la sensazione di vivere in un bosco”. All’interno, le pareti sono dipinte con fasce colorate orizzontali “che rispecchiavano le proporzioni dell’uomo e della donna e rappresentavano l’intimità della casa” e una serie di cilindri concentrici originati da diversi poli definiscono i soffitti del soggiorno. Forme basate sui campi, “un concetto tipico di Einstein, che proponeva i campi come qualcosa di intermedio tra la materia e l’aria”. La casa obbedisce a questi concetti essendo originata da poli concentrici e pieni di curve. Internamente la flessibilità governava gli spazi: pareti mobili, poste su binari circolari, permettevano agli ambienti di dilatarsi. Una lezione del Neoplasticismo Olandese, eredità del moderno, ma plasmata in una nuova architettura, “non frigida come quella del Razionalismo, ma invece legata alla vita”. Qui la tecnica della “parete inflessa” già sperimentata in Casa Baldi, si amplia di significato, arrivando a divenire matrice generatrice dello spazio. La linea curva del Barocco modella lo spazio attraverso l’articolazione plastica di pareti concave e convesse. La transizione tra spazio esterno ed interno individua un tipo di apertura denominata “finestra dialettica”, risultato di diverse contrapposizioni di muri inflessi. La casa ha una storia travagliata: ceduta alla morte di Papanice, nel 1972, alla casa Editrice Giunti, è oggi sede dell’Ambasciata di Giordania e ha nel tempo subito vari rimaneggiamenti. Oltre alla demolizione della scala esterna e dell’organo sul tetto, è stata spogliata di quella sua peculiarità – il rivestimento a canne dei balconi – e ha oggi quasi le sembianze di una classica palazzina romana. Lo stato di degrado cui attualmente versa, ha spinto il nipote del primo proprietario ad intervenire, chiedendo alla Soprintendenza l’apposizione di un vincolo di tutela e salvaguardia che ne permettesse il restauro. La Biennale di Architettura 1980 e la Strada Novissima Nominato nel 1979 primo Direttore del Settore Architettura della Biennale di Venezia (ne fu Presidente per un decennio, dal 1983 al 1992), nello stesso anno Paolo Portoghesi diede incarico ad Aldo Rossi di realizzare il Teatro del Mondo ormeggiato sulla Punta della Dogana nel Bacino di San Marco. L’opera più significativa della Biennale, il manifesto dell’architettura postmoderna, fu però la celebre “Strada Novissima” voluta dallo stesso Portoghesi secondo l’allestimento di Costantino Dardi. Egli invitò venti architetti internazionali che dovevano cimentarsi sul tema della Biennale “La Presenza del Passato”, una riflessione sul Postmoderno. Ognuno di essi aveva il compito di realizzare una facciata volta alla strada che, nell’insieme fianco a fianco e sui due lati, fino ad occuparne 70 metri in lunghezza. Il risultato furono venti facciate contigue di 7 metri di larghezza, e un’altezza variabile da 7,20 a 9,50 metri. Frank Gehry, Robert Venturi, Arata Isozaki, Ricardo Bofill, Rem Koolhaas, Il Gruppo GRAU, Charles Moore, Robert Stern, Hans Hollein, Michael Graves, Léon Krier, Massimo Scolari e Franco Purini sono alcuni degli architetti invitati a dar forma a questa “galleria di autoritratti architettonici” – come la definì Portoghesi. Portoghesi stesso, a causa di un evento fortuito, si trovò a realizzare una propria facciata, in sostituzione di Christian de Portzamparc. L’opera, in collaborazione con Cellini e D’Amato, era un tributo a Borromini: una facciata dalle pareti piegate in curve e controcurve, una reinterpretazione delle facciate di San Carlo alle Quattro Fontane e dell’Oratorio dei Filippini a Roma. La Strada Novissima è la rappresentazione del postmoderno, considerata dalla critica l’evento che ha segnato la storia dell’architettura. Anche grazie alla qualità degli architetti coinvolti e della giuria internazionale invitata (Charles Jencks, Christian Norberg-Schulz, Vincent Scully e Kenneth Frampton) ha avuto un’eco smisurata. Ha il grande merito di aver conciliato almeno due visioni – distinte e simili – di architettura postmoderna. Quella americana – popolare, eclettica, eccessiva, disinibita e pop – con quella italiana – tendenzialmente più sobria e volta ad una composizione della memoria storica secondo la maniera classica ma in accordo alla tradizione dei luoghi. Case per lavoratori ENEL, Tarquinia, 1985 Nel 1985 Portoghesi realizza a Tarquinia (VT), un complesso residenziale per i lavoratori ENEL impiegati della vicina Centrale elettrica di Montalto di Castro. In questo intervento si può leggere quella “linea postmoderna della quale Portoghesi è un autorevole teorico con una sua specifica posizione consistente nel rapportarsi con la memoria storica nella quale il classico e il moderno si amalgamino” (G. Priori). L’opera è traboccante di citazioni e riferimenti storici. Archi che danno il ritmo alla composizione ed evocano nella ripetizione il profilo di un antico acquedotto romano, colonne doriche al posto di pilastri che sorreggono il piano terra pilotis, torri che spezzano la continuità del fronte alla maniera delle mura di cinta medievali. La Grande Moschea di Roma, 1995 Considerata l’opera-capolavoro di Paolo Portoghesi, la Grande Moschea di Roma, la più grande d’Europa, ha una storia lunga e travagliata, un processo durato oltre vent’anni, dall’idea alla realizzazione. Studioso della cultura islamica, già dagli anni Settanta aveva dato prova della sua sensibilità architettonica progettando il Palazzo dei reali di Giordania ad Amman, l’aeroporto e il piano regolatore di Khartume. La Roma antica era celebre per la tolleranza verso le culture e le religioni dei popoli dell’impero, così la Roma moderna, necessitava di un importante luogo di culto islamico per completare – insieme alla Sinagoga – la comunione di tutte le religioni monoteiste. Il progetto della Grande Moschea di Roma, in collaborazione con Vittorio Gigliotti e l’architetto iracheno Sami Mousawi, rappresenta una sintesi di diverse culture e modi di costruire: dalle moschee ottomane agli archi intrecciati caratteristici della Spagna medievale alle cupole borrominiane. Portoghesi stabilisce un dialogo con la cultura islamica attraverso la “poetica dell’ascolto”, come lui stesso la definisce. La prima pietra, un blocco di travertino romano di duecento chili, fu posata il 11 dicembre 1984 (tutt’ora inciso in lettere latine e arabe), alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini, Giulio Andreotti, il sindaco di Roma, una rappresentanza del Vaticano e altre autorità. Il progetto nasce dalla necessità e volontà di stabilire un rapporto diretto con la città. Che non poteva essere fisico, per la sua posizione di “margine” rispetto al centro abitato. Era l’idea di una grande strada completamente aperta all’intorno in segno d’invito e partecipazione che, in seguito, come confessò Portoghesi stesso, per ragioni di limite venne chiusa da un recinto. Il culmine dell’edificio è lo spazio di preghiera che diviene significativo attraverso la captazione della luce. La luce è la protagonista dello spazio ed il suo uso è capace di creare un clima meditativo. Entra in modi diversi a rappresentare differenti significati simbolici. Dall’alto per simboleggiare il divino. Dal basso, attraverso delle fessure, per rappresentare l’atteggiamento dell’uomo verso Dio che si esprime attraverso la preghiera. La struttura ha caratteri moderni e curve. La grande sala di preghiera, con i caratteristici pilastri protesi verso l’alto a incurvarsi evoca l’immagine di una foresta. L’interno è decorato con ceramiche invetriate di colori delicati che ripetono il tema coranico “Allah è luce“. Teatro Politeama di Catanzaro, 2001 Il Teatro Politeama di Portoghesi è stato inaugurato alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi nel febbraio del 2001. Il progetto, come confessato dallo stesso architetto, trae ispirazione dal rapporto tra le forme musicali, naturali e quelle storiche del teatro. La facciata è di chiara ispirazione borrominiana. Portoghesi, come richiesto dalla committenza, realizza un “teatro all’italiana” impostato su un complesso sistema compositivo dove tre diversi volumi sono tra loro connessi: il foyer, la sala e il palcoscenico. La facciata, che evoca il Barocco di Borromini nell’alternanza di forme concave, è scandita da fasce finestrate sovrapposte su 4 livelli che indicano l’organizzazione interna dei palchetti. Le curve, in prossimità dell’ingresso, si aprono come un abbraccio ad accogliere il visitatore. All’interno emerge la forma della conchiglia del soffitto incombe sulla grande sala – che può ospitare fino a 372 spettatori – a forma di ferro di cavallo attorno al maestoso palcoscenico centrale adatto allo svolgimento di vari generi di spettacolo, dalla lirica, dalla danza, al musical. Portoghesi, In accordo alla sua poetica, dà al progetto una forte componente simbolica: la pianta richiama la forma della lira, le balconate quelle del violino, la decorazione a sette punte dei palchetti indica le note musicali. Belvedere le Dalie, Roma, 2019 Tra le ultime realizzazioni dell’architetto romano, un complesso residenziale in una zona marginale della città. Belvedere le Dalie, realizzato a Roma nel 2019 rappresenta il tentativo di prolungare il centro urbano oltre i propri confini, fino alla borgata, trasferendone quei caratteri barocchi dell’architettura che, in combinazione con la natura, sono capaci di dare identità e bellezza ad una periferia solitamente estranea. L’architetto Paolo Portoghesi, a proposito di Belvedere le Dalie spiega: “Si tratta di due case ad appartamenti nel complesso Talenti, davanti al complesso residenziale Rinascimento Primo dove ho potuto realizzare il mio sogno di continuare la Roma storica, una città con una identità inconfondibile che la periferia ha quasi sempre tradito. Sono felice di potere riprendere questa esperienza in due edifici a cui è stato dato il nome di “Belvedere le Dalie”. Ritengo importante che sia stato dato un nome che individua non tanto l’ispirazione quanto una caratteristica che indubbiamente è di questa architettura, cioè il fatto di riprendere la regolarità e nello stesso tempo la ricchezza che è propria dei fiori. In queste case effettivamente ho scelto un fiore molto semplice, con quattro petali, che rappresenta l’idea del fiore. Questo naturalmente fa parte di una aspirazione che io cerco di trasmettere a coloro che abiteranno: non dimenticare che è necessario abitare la Terra e che la si può, però, anche abitare poeticamente”. Per approfondire: Aldo Rossi, L’architettura della città, 1966 Charles Jencks, The language of Post-Modern architecture, 1977 De Guttry Irene, Guida di Roma moderna dal 1870 ad oggi Paolo Portoghesi, Poesia della curva, 2019 Paolo Portoghesi, Dopo l’architettura moderna, 1980 Paolo Portoghesi, Le inibizioni dell’architettura moderna, 1974 Paolo Portoghesi, Francesco Borromini, 1967 Paolo Portoghesi, Roma barocca, 1966 NORBERG-SCHULZ Christian, Paolo Portoghesi architetto, Skira, 2001 M. Pisani, Dialogo con Paolo Portoghesi, Roma, 1989 Peter Blake, Form Follows Fiasco, 1977 R. Venturi and D. Scott Brown, Learning From Las Vegas, 1972 R. Venturi, Complessità e contraddizioni nell’architettura, 1966 ROSSI, Piero Ostilio, Roma. Guida all’architettura moderna 1909-2011, Laterza, 2012 Tutte le immagini che riguardano Casa Papanice sono state gentilmente concesse da Archivio Casa Papanice© Consiglia questo approfondimento ai tuoi amici Commenta questo approfondimento