Formazione, certificazione e ispezioni sono gli elementi su cui la normativa si focalizza, con l’introduzione della cosiddetta “patente a crediti per la sicurezza nei cantieri” che partirà con una dotazione iniziale di 30 punti, decurtati in caso di violazioni, e consentirà di entrare in cantiere solo a chi ne ha almeno 15. L’obiettivo è chiaro: di fronte al rischio di sospensione dell’operatività in cantiere, il legislatore si aspetta un più rigoroso rispetto delle norme sulla sicurezza, sia da parte delle aziende che degli autonomi. E’ ovviamente per gli infortuni che vengono previste le maggiori sanzioni: da 2 a 10 crediti a seconda della gravità dell’incidente e, nei casi più gravi, la possibilità per l’Ispettorato di sospendere la patente fino a un massimo di dodici mesi. Se da una parte il sistema prevede sanzioni amministrative, esclusione da concorsi pubblici e corsi per tornare in possesso dei punti persi, numerose sono state le polemiche accese dai principali sindacati – CGIL e UIL – che ritengono il sistema inadeguato e poco efficace per combattere e provare a risolvere seriamente il tema della sicurezza nel settore delle costruzioni. Riflettori sui cantieri: i rischi connessi ai lavori edili L’edilizia è infatti uno dei comparti più pericolosi in assoluto per chi lavora. Lo attesta un’analisi di lungo periodo di Inail, secondo cui nel 2022 gli infortuni sul lavoro denunciati nel settore sono stati circa 40mila, in aumento del 3,4% rispetto all’anno precedente ed in linea con i dati del biennio ante pandemia 2018-2019. La lettura degli indici di rischio dell’ultimo triennio disponibile (2018-2020) colloca il settore al primo posto per frequenza di infortuni più gravi (che causano cioè morte o inabilità permanenti). Prendendo in considerazione gli infortuni riconosciuti dall’Inail nel quinquennio, circa il 30% è dovuto a schiacciamento in movimento verticale o orizzontale su/contro un oggetto immobile (in nove casi su 10 cadute dall’alto). La necessità di una vera cultura della prevenzione E’ un bias comportamentale soprattutto italiano: valutare i costi per tutelarsi e tutelare i propri dipendenti (economici, di tempo e di energia) in maniera distorta – ossia un costo puro e dunque uno spreco e non un investimento. Che a sua volta si associa a un’altra dissonanza cognitiva: il famoso “tanto a me non succede” particolarmente diffuso tra chi ripete ogni giorno la stessa attività. Una distorsione (il rischio zero per definizione non esiste) tipica non solo dei singoli nelle loro scelte di vita ma spesso anche delle aziende. Sono anche questi meccanismi psicologici quelli alla base dell’approccio verso il tema della sicurezza sul lavoro: ci si dota degli strumenti di base per rispettare la legge – e con l’arrivo della “patente lavorare in cantiere” cercare di non perdere punti – ma non si valuta che un investimento maggiore in protezione si traduce in realtà in un risparmio per l’azienda. Studi di associazioni di categoria dei datori di lavoro, di INAIL e del Progetto CO&SI (Costi e Sicurezza) evidenziano infatti che la spesa globale della “non sicurezza” ammonta ad una media del 3,5% del PIL, circa 45 miliardi. Qualche tempo fa il tema era stato affrontato dall’Agenzia Europea per la Sicurezza (Eu-Osha) nel report “The value of occupational safety and health and the societal costs of work-related injuries and diseases”, che indagava sugli impatti economici della sicurezza negli ambienti di lavoro mettendo a confronto diversi paesi. Spesso, soprattutto in Italia, i costi per la sicurezza non sono esattamente determinabili: oltre alle sanzioni e, d’ora in avanti, alla perdita di eventuali punti, vi sono “costi nascosti” come ad esempio una minore capacità produttiva, il lavoro straordinario degli altri lavoratori per supplire alle assenze, quello per le commesse slittate, il turn-over interno o riqualificazione. A cui si aggiungono i costi di immediata gestione dell’infortunio e quelli di assenza del lavoratore per la stessa ragione. Lo studio calcola che l’infortunio costa all’azienda circa 5 volte in più rispetto alla retribuzione del dipendente e conclude affermando che il piano di gestione della salute e sicurezza aziendale dovrebbe essere considerato al pari di altre voci essenziali nella contabilità e bilancio aziendale. Questo provvedimento, volto a sanzionare i trasgressori quando l’incidente è già avvenuto, non serve a generare la cultura della prevenzione necessaria, soprattutto in Italia, a incidere sensibilmente, rischiando di trasformarsi in un ulteriore appesantimento burocratico. Per aumentare la consapevolezza delle imprese servirebbe infatti agire “a monte”. Solo quando si riuscirà a superare la mentalità fatalistica che porta a sottovalutare i rischi e si comprenderà che la sicurezza rappresenta un valore fondamentale per il benessere individuale e collettivo, potremo assistere a una reale riduzione degli infortuni sul lavoro. Consiglia questo comunicato ai tuoi amici