La figura dell’esperto ambientale

La gestione decentrata del territorio
Il processo di riforma della macchina amministrativa dello Stato, con delega di competenze e responsabilità, dai gangli del governo centrale alle amministrazioni locali, ha conosciuto negli ultimi anni una forte accelerazione, sotto la spinta decisa di una sentita richiesta proveniente in tal senso dalla società civile.
Fra le aree tematiche che più proficuamente hanno usufruito di siffatte tendenze centrifughe, indubbiamente, figura la gestione delle trasformazioni territoriali, con particolare riguardo all’espressione di pareri in merito all’impatto delle nuove realizzazioni sul contesto edificato e paesaggistico. Se, tuttavia, l’avvicinamento del momento decisionale al suo giusto livello di approfondimento – quello comunale – è di palese aiuto nella formulazione di un giudizio fondato su una conoscenza reale dei termini delle questioni, dall’altro non è sfuggita al legislatore regionale la necessità di individuare uno specifico soggetto, di acclarate capacità, cui affidare in delega tali poteri.
L’esperto in materia di tutela ambientale non è, dunque, altro che un tecnico che, per comprovata esperienza o per aver partecipato a un apposito corso di formazione riconosciuto dalla Regione in cui esercita, è ritenuto avere titolo per esprimere valutazioni e pareri qualificati sulla congruità paesistico-ambientale degli interventi edilizi sottoposti alle competenze dell’Amministrazione Comunale.

Un ruolo di responsabilità
Un ruolo di garante della qualità degli erigendi manufatti, rispetto al genius loci dei contesti insediativi e territoriali entro cui questi andranno a essere collocati, che richiede un’approfondita conoscenza delle specifiche realtà locali e una visione non manicheisticamente “puritana” della nozione di vincolo.
Non si tratta, infatti, di precludere qualsivoglia ricerca formale e compositiva che differisca dalle partiture dell’architettura spontanea e della tradizione, in nome della difesa di un paesaggio da cartolina da fissare, una volta per sempre, nella sua inamovibile identità, quanto di conciliare le esigenze di sviluppo dei tessuti edificati con i caratteri tipologici ivi riconoscibili e operanti alle diverse scale, se del caso, anche ammettendo scarti capaci di reinterpretarne lo spirito, pur adottando soluzioni innovative.
Nella personale esperienza dell’autore, che lo vede impegnato con la summenzionata qualifica nelle commissioni edilizie di alcuni comuni in provincia di Milano (posti entro il perimetro di vincolo di area a parco), è stato possibile, in generale, constatare alcuni ricorrenti vizi di fondo – nell’approccio al tema “casa” tenuto da committenti e professionisti, ma anche da parte della Pubblica Amministrazione – sui quali sembra qui di una qualche utilità svolgere alcune riflessioni.

Formare la committenza
Una prima considerazione è relativa alla cultura abitativa della committenza, nella maggior parte dei casi attardata su soluzioni compositive e distributive decisamente di retroguardia e sovente incline – nelle partiture di facciata – alle categorie estetiche del “carino” e del “grazioso”, oltre che al gusto del “mosso”.
Ambienti tagliati a “L” o con soluzioni arredative in diagonale, corridoi e disimpegni di più che generoso respiro, cornici e ribassamenti variamente sagomati in gesso, pitturazioni di finitura spugnate o in falso stucco alla veneziana,…si mescolano negli interni senza un filo logico che non sia quello della sovrabbondanza degli effetti e della mera ricalcatura di proposte viste su pubblicazioni più o meno specializzate, se del caso con un tocco di antica saggezza popolare quale surreale legante.
Lo stesso criterio (ammesso che di questo si possa parlare) domina negli esterni, ove i colori e i materiali, propri della cultura insediativa locale, sono – quasi sempre – scartati gratuitamente (ed è qui il vero problema) in favore di altri affatto estranei alle tecniche esecutive del contesto di riferimento: davanzali e zoccolature in granito lucido invece che in beola o serizzo, colori di finitura dei prospetti rosa antico o salmone anticato al posto della gamma delle terre, intonaci colorati in pasta in sostituzione dei più tradizionali intonaci di calce… Il tutto, appunto, non in nome di una sperimentazione innovativa nel campo dei materiali, coerente con una ricerca architettonica d’avanguardia, quanto piuttosto per ottenere in chiave accelerata improbabili patine di antico o in ossequio a velleità estetiche totalmente estranee all’ambiente circostante.
Oppure, se si vuole con risultato anche più mortificante, mirando all’unico obiettivo delle economie di immediato ritorno, come quelle garantite dalle lastre in calcestruzzo pieno, di frequente impiegate come manufatti di recinzione delle singole proprietà, soprattutto non in affaccio su strada, o quelle un tempo assicurate dai manti in eternit in copertura, o, ancora, puntando a risparmi di più lungo respiro, come nel caso degli incongrui rivestimenti in clinker di edifici che, per proporzioni e linee architettoniche, sono indubitabilmente vocati a vedere le proprie superfici trattate a intonaco.

Committenza – Pubblica Amministrazione: un rapporto difficile
Nell’atteggiamento della committenza verso la Pubblica Amministrazione vi sono poi due vizi originali di fondo che inficiano la linearità dei reciproci rapporti e che sono legati, uno, alla difficoltà di accettare prescrizioni e limiti alle proprie aspettative riferite a personali proprietà (con ogni diniego vissuto come una vera e propria imposizione e un arbitrio e non come una legittima necessità di contemperare le esigenze dei singoli entro un disegno collettivo armonicamente delineato) e, l’altro, al difetto tutto italico di sfruttare i minimi margini concessi dalla legge in vista di più o meno leciti ampliamenti futuri o per contenere al massimo gli oneri di concessione dovuti. Una strada del resto scientemente assecondata dallo stesso normatore, evidentemente in piena sintonia con il suo elettorato di riferimento, attraverso provvedimenti quali quello – oggetto di infiniti ricorsi e discussioni – sul recupero dei vani sottotetto a fini abitativi, anche di recente agli onori delle cronache giurisprudenziali, o l’ancora più dirompente strumento del condono.
Nel complesso, l’insieme di tali atteggiamenti, evidenzia la necessità di un momento di formazione della committenza, quale l’adozione di abachi e opuscoli di facile lettura (con l’illustrazione motivata delle scelte proposte come linee guida di progetto per le realizzazioni di una determinata area), che non tutti i comuni, per le immancabili ragioni di bilancio e di disponibilità di risorse umane, possono affrontare.

Professionismo di maniera
I professionisti, da parte loro, sono sovente inclini a un protagonismo di maniera, che li porta a ricercare una propria cifra stilistica riconoscibile o il scimmiottamento di linguaggi di contemporanea attualità, nell’uno e nell’altro caso con esiti totalmente avulsi dall’intorno.
In questo senso l’edilizia commerciale, ove alle pulsioni sopra ricordate si sommano le esigenze di veicolazione pubblicitaria della gamma merceologica della committenza, è solitamente il campo delle sperimentazioni più aberranti: dall’ipergrafica alla pop-art – ovviamente entrambe giocate al loro massimo ribasso – nulla è lasciato d’intentato pur di evitare di passare inosservati.
Ma anche l’edilizia residenziale non sfugge all’ansia di “lasciare il segno”, di riscattare con un gesto un percorso professionale fatto di modestia di occasioni (in termini quantitativi, non qualitativi) che è, poi, condizione ricorrente nella odierna vita professionale dei più.
Se così a ******* è possibile ammirare una lottizzazione di casette unifamiliari in puro stile Bottiano, gli epigoni di Aldo Rossi disseminano oggetti su tutta la pianura Padana e oltre, e – a ******* ***** – un piccolo complesso per abitazioni e negozi esibisce con fierezza la propria nuda struttura in acciaio retoricamente esposta fra edifici in muratura. E di esempi analoghi se ne potrebbero citare in numero pressoché infinito, implicito segnale anche di un palese fallimento dei percorsi formativi universitari, incapaci di insegnare alle nuove leve della progettazione un metodo di analisi e di progetto che non consista nella semplice riproposizione di elaborazioni (oltretutto pensate per altri luoghi) altrui.
Quanta distanza dalla passione civile e dal gusto per la calibrata misura degli effetti e dei risultati predicata da figure del calibro di Giuseppe Pagano e divenute, poi, cifre espressive della miglior stagione della nostra architettura del Dopoguerra?
In particolare due sembrano le aree di maggior lacuna nella preparazione dei giovani, ma anche meno giovani, tecnici dell’edilizia che, inevitabilmente, determinano l’inadeguatezza dei loro progetti rispetto alla specifica tematica qui trattata: la conoscenza dei caratteri tipologici e distributivi dei contesti insediativi in cui operano e delle tecnologie e dei materiali degli stessi. Il che, ovviamente, comporta, in molti casi, una totale e inaccettabile gratuità degli assetti planimetrici e dei partiti di facciata delle elaborazioni progettuali sottoposte al vaglio delle Commissioni edilizie.

Maggiori risorse per la Pubblica Amministrazione
Se queste sono alcune spigolature ricorrenti sul fronte della committenza e della progettazione, è altrettanto indubbio che esista, da parte invece della Pubblica Amministrazione, una considerevole inerzia nel proporre e pretendere il rispetto di termini normativi superati dai fatti e dall’evoluzione della stessa cultura della tutela ambientale. Del resto, in moltissimi casi, nei piccoli comuni il tecnico si ritrova a dover svolgere contemporaneamente mansioni e incarichi che attengono un più che disparato ventaglio di settori di attività (pratiche edilizie, gestione contabile, rifiuti, ecc.), con la concreta impossibilità di andare oltre il dettato letterale di una norma che, oltretutto, è in sclerotica e costante variazione. E, d’altronde, la stessa procedura di autorizzazione paesistico-ambientale in delega ai comuni si fonda sul puro volontariato di chi, professionista della società civile locale, si rende disponibile ad assumersi tale responsabilità.
Ne derivano, inevitabilmente, incongruenze e forti limiti all’efficacia/efficienza dell’azione di governo del territorio svolta dalla Pubblica Amministrazione, con effetti – a volte – indubbiamente negativi.

Preservare la cultura materiale dei luoghi
E’ questo il caso della prescrizione che impedisce, nella quasi totalità dei comuni, la possibilità di realizzare recinzioni dei lotti in muratura o di costruire in fregio alla strada.
Fra gli elementi tipici dell’organizzazione insediativa dei centri rurali Lombardi, infatti, vi sono proprio i classici muri in ciottoli di fiume listati con mattoni, capaci con la loro ricca texture materica di marcare la differenza fra le aree a verde della campagna e quelle pur sempre piantumate degli orti e dei giardini, creando un riconoscibile effetto urbano. Effetto, ovviamente, derivante in massima parte dall’allineamento in lunghe cortine affacciate su strada delle singole unità immobiliari poste tra loro in adiacenza.
Si tratta di manufatti e di scorci prospettici di rara bellezza, testimonianze di una cultura materiale antica di secoli, ma che nelle pieghe delle vigenti norme tecniche edilizie di matrice razionalista non trovano alcuna possibilità di esecuzione.
Le parole d’ordine del Movimento Moderno – luce, aria, sole – hanno imposto, in loro sostituzione, la dittatura della casa isolata al centro del lotto e della recinzione in ferro verniciato (quando non in acciaio inox) – da rendere oggetto delle più arbitrarie interpretazioni, sia in termini di disegno delle inferriate, sia dal punto di vista della scelta dei colori. Il risultato è lo sciatto e squallido patchwork multicolore che contraddistingue tristemente tutte le lottizzazioni di espansione, invariabilmente risolte con la tipologia estensiva della villa unifamiliare o della villetta a schiera, ma mai, per limite intrinseco alla propria natura, in grado di creare un godibile effetto di centro abitato.
Se poi il portale di accesso alla proprietà, nelle soluzioni tradizionali della cortina su strada o della muratura mista di recinzione, era risolto in accordo a un preciso abaco di proporzioni, declinate a secondo dell’importanza della singola occasione con maggiore o minore enfasi retorica, il cancelletto di ingresso ricavato nelle inferriate di perimetro diviene il luogo privilegiato per le ansie individualistiche dei residenti, senza che alcuna ipotesi, neanche la più incredibile, sia risparmiata all’immagine già violentata del contesto.

Un ruolo sovente mortificato
Stante questa cornice normativa, nel caso specifico, l’operato dell’esperto ambientale si deve limitare di necessità alla prescrizione di un’omogeneità nella tipologia di recinzione da adottare e nelle tinte, senza – tuttavia – poter incidere, più di tanto, sui reali termini della questione. Sarebbe, invece, quanto mai utile, disponendo di un minimo di risorse aggiuntive, poter ripensare norme tecniche di attuazione dei piani regolatori e regolamenti edilizi in stretta sintonia con i caratteri tipologici, alle diverse scale (territorio, urbanistica, edilizia, architettura), dei singoli centri. Si ridurrebbe così ai soli casi più problematici l’intervento degli esperti, contribuendo a diffondere una autentica cultura della tutela ambientale tra committenti e professionisti anche per tutti quei frangenti in cui un esplicito atto autorizzativo non sia richiesto dalla norma.

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