Edifici come organismi: la monografia e il pensiero progettuale di Filippo Taidelli

In un’epoca in cui l’architettura è spesso valutata attraverso parametri quantitativi e prestazionali, Filippo Taidelli propone una visione alternativa: edifici che non solo rispettano l’ambiente, ma che si prendono cura delle persone che li abitano. In occasione della presentazione all’ADI di Milano della monografia “Filippo Taidelli. Architetture scelte 2012–2024”, edita da Forma Edizioni, che raccoglie dieci progetti emblematici, ho incontrato l’architetto che mi ha offerto una riflessione profonda sul ruolo dell’architettura nel migliorare la qualità della vita.

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Edifici come organismi: la monografia e il pensiero progettuale di Taidelli

Ho incontrato Filippo Taidelli in occasione della presentazione della sua monografia “Architetture scelte 2012–2024”, all’ADI Design Museum di Milano. Un evento che ha offerto l’opportunità non solo di ripercorrere oltre un decennio di progetti, ma anche di immergersi nella visione profonda e radicale che anima il suo lavoro.

Entrare in un luogo e vederne subito il potenziale, anche se ancora sfuocato: questa è la prima scintilla per ogni progetto, racconta l’architetto. Un’immagine interiore che, come un feticcio poetico, lo accompagna fino alla fine del cantiere, guidando con coerenza ogni scelta progettuale.

La sua architettura non è solo disegno, ma ricerca continua, visione sistemica, etica applicata. Non a caso, da  parecchi anni Taidelli è protagonista di un’indagine pionieristica sull’ospedale del futuro: un organismo empatico e rigenerativo, capace di fondere interno ed esterno, alta tecnologia e benessere percettivo. Un’architettura che guarisce, grazie alla luce naturale simulata, alla natura portata dentro, alla progettazione emozionale.

Architetto Filippo Taidelli Credit Andrea Martiradonna
Filippo Taidelli – Credit Andrea Martiradonna

In un settore spesso schiacciato dalla burocrazia e dall’iper-specializzazione, Taidelli rivendica con forza il ruolo dell’architetto come “indisciplinato creativo”: capace di custodire la visione d’insieme, monitorare ogni fase del processo e restare fedele al concept iniziale. In un mondo che cambia troppo in fretta, serve qualcuno che “tenga la barra dritta”.

Il suo è un pensiero radicale e necessario: l’edificio non è più una macchina per abitare, ma un ecosistema da rigenerare. Non più strutture usa-e-getta, ma “magazzini di materiali” certificati e riutilizzabili. Non più nuovi volumi, ma città rigenerative, dove il buon senso costruttivo e il bello terapeutico guidano la riqualificazione dell’esistente.

Oggi più che mai, il progetto architettonico deve tornare a essere un gesto culturale. Una risposta concreta alla sfida climatica, all’urgenza sociale, al bisogno di bellezza. E questo richiede una nuova alleanza tra progettazione e ricerca, tra creatività e tecnologia, tra etica e visione.

Perché costruire non significa solo alzare muri. Significa prendersi cura dello spazio, del tempo e – soprattutto – delle persone.

L’architettura del futuro? Empatica, sensoriale, digitale. Ma soprattutto umana

Lei parla spesso di “umanizzazione dell’architettura”. Da dove nasce questa esigenza?

“Nasce da lontano, da oltre vent’anni di lavoro nel mondo della sanità. Ho iniziato quasi per caso, progettando gli uffici dei dirigenti dell’Humanitas di Rozzano, in un vecchio edificio che un tempo doveva essere un asilo comunale. Entrato dalla porta di servizio, mi sono presto ritrovato immerso in un contesto affascinante e complesso: da un lato un livello altissimo di tecnologia – l’ospedale, per certi versi, è la Formula 1 dell’architettura, dove si sperimentano le soluzioni più avanzate – dall’altro un fortissimo impatto umano, fatto di relazioni tra pazienti, operatori sanitari e familiari.

Dopo una naturale diffidenza iniziale – io percepito come l’architetto con il foulard, loro come dei burocrati un po’ rigidi – si è instaurato nel tempo un dialogo sempre più profondo e costruttivo. Con la crescita dei progetti, è cresciuta anche la consapevolezza: dal polo universitario per Medicina e Infermieristica, a nuovi ospedali, fino agli ospedali Covid, ogni intervento è stato un’occasione per acquisire strumenti e prospettive inedite. È in questo percorso che si è radicata la mia convinzione: progettare spazi di cura significa progettare per le persone, prima ancora che per le funzioni“. 

Quindi oggi la collaborazione è più semplice?

“Diciamo che nel frattempo sono cambiate molte cose. In particolare, l’esperienza del Covid ha amplificato una consapevolezza che già da tempo stava maturando: esiste una distanza enorme tra l’involucro architettonico e i bisogni emotivi di chi quegli spazi li vive.

Al centro di questa trasformazione c’è il paziente – con esigenze non solo cliniche, ma anche psicologiche e relazionali. L’obiettivo diventa allora ridurre lo stress e aumentare il benessere attraverso un’elevata qualità ambientale percepita, soprattutto in reparti critici come diagnostica e radiologia, spesso privi di luce naturale o aperture verso l’esterno.

La nostra ricerca su questi temi era iniziata già prima della pandemia – nel 2018, per esempio, abbiamo presentato al Fuorisalone il concept dell’Ospedale del Futuro. In un certo senso siamo stati pionieri. Ma è con il Covid che tutto è cambiato davvero: tematiche che sembravano futuristiche – come l’intelligenza artificiale, la telemedicina o la nanotecnologia – sono diventate parte della quotidianità. E con esse, anche il dialogo tra progettisti e strutture sanitarie si è fatto più aperto e consapevole”.

Il tema della ricerca affianca sempre quello della progettazione

Cosa significa progettare un’architettura terapeutica?

“Nel 2022, in collaborazione con Fujifilm Italia, abbiamo presentato Breath, un’installazione allestita durante il Fuori Salone presso l’ex Ospedale Maggiore, oggi sede dell’Università Statale di Milano. Il progetto, nato come riflessione post-pandemica sull’umanizzazione dell’architettura sanitaria, proponeva un modello di ospedale del futuro capace di ridurre lo stress e migliorare la qualità della cura, fondendo luce, natura, tecnologia e percezione sensoriale.

Attraverso elementi come giardini interni, oblò che simulano il cielo e ambientazioni immersive, abbiamo trasformato ambienti ospedalieri spesso percepiti come ostili in spazi evocativi e terapeutici. Alla base del progetto c’era un think tank interdisciplinare – medici, progettisti, lighting designer – che ha lavorato per integrare le tecnologie più avanzate in contesti ad alta complessità impiantistica come la radiologia, senza perdere mai di vista la centralità dell’esperienza umana.

Lo studio è partito da una constatazione frequente: negli ospedali, la qualità architettonica tende a decrescere man mano che ci si allontana dall’ingresso, spesso progettato come una lobby da hotel di lusso, per poi peggiorare sensibilmente nei reparti e nelle sale d’attesa, dove si concentrano le emozioni più vulnerabili di pazienti e operatori. Per superare i limiti fisici e normativi degli ambienti blindati, abbiamo introdotto soluzioni come la tecnologia CoeLux, che porta la luce solare “dentro”, restituendo comfort e orientamento biologico.

Questo tipo di ricerca applicata richiede un mix di competenze che va oltre i ruoli tradizionali. È qui che rivendico con forza la figura dell’architetto come indisciplinato creativo, capace di resistere all’omologazione gestionale imposta da un sistema sempre più misurabile, normato e riduzionista. Oggi, spesso ci troviamo di fronte a project manager formati a gestire processi lineari ma incapaci di tenere insieme tutte le variabili in un progetto lungo sei anni. La vera sfida è questa: mantenere coerenza tra il concept iniziale e il risultato finale, tenere la barra dritta nonostante tutto”. 

Che cos’è il “feticcio” e come guida il processo creativo dei suoi progetti?

“Il feticcio, per me, è quell’immagine iniziale che emerge durante il primo sopralluogo. Non è una visione mistica o definitiva, ma qualcosa di sfocato, intuitivo, che però sento con assoluta certezza: è quella cosa lì. Un riferimento poetico, un’intuizione guida che mi accompagna lungo tutto il processo progettuale e a cui mi aggrappo per non perdere la coerenza, anche quando il percorso si complica”.

È un’immagine potente ma anche fragile quella che mi trasmette Filippo Taidelli, perché trasformarla in realtà non è affatto semplice. Gli chiedo se il mondo della progettazione in Italia sia pronto a recepire questa dimensione, che unisce etica e visione.

“Siamo ancora troppo legati a una cultura tecnica o estetizzante, mentre dovremmo evolvere verso un’architettura con una responsabilità più ampia, culturale e sociale. Basta guardare i dati: entro il 2050, circa il 70% della popolazione vivrà in città, l’aspettativa di vita continua a crescere, e il settore delle costruzioni sarà fondamentale visto che, come sappiamo, è responsabile del 40% del consumo energetico e del 36% delle emissioni di gas serra. Senza contare il tema del consumo di suolo e le crescenti disuguaglianze urbane”.

Salubrità degli ambienti ed healthy building

In che modo l“healthy building” si differenzia dai più diffusi concetti di green building o edificio a energia zero?

“Credo si debba superare il concetto di green building per abbracciare quello di healthy building: non basta un edificio che performa bene in termini energetici, certificato gold o a zero emissioni. Dobbiamo progettare spazi che migliorino realmente la vita di chi li abita, garantendo aria salubre, luce naturale, comfort termico, qualità percettiva. Una casa, un ufficio, un ospedale non sono solo involucri performanti: sono ambienti in cui trascorriamo il 90% del nostro tempo. Ed è scientificamente provato che la qualità dell’aria, la luce naturale, la temperatura e l’acustica influenzano direttamente la nostra salute e le nostre capacità cognitive. Eppure, ancora oggi, molti materiali in uso non sono adeguatamente testati per la sicurezza, e spesso ci troviamo a vivere in spazi con formaldeide nei mobili, radon nei sottofondi e amianto nei tetti.

L’approccio dell’healthy building è un cambio di paradigma: non solo progettare edifici che “consumano meno”, ma che “fanno stare meglio”. Che si occupano dell’essere umano nella sua interezza. E questo implica anche un cambio culturale: smettere di parlare solo tra tecnici e iniziare a considerare il contesto socioeconomico reale.

Serve progettare con buon senso: prima ancora di costruire, chiedersi se sia davvero necessario farlo, oppure se si possa recuperare l’esistente trasformandolo in un’occasione creativa. E quando si costruisce, farlo con materiali naturali adattandone l’uso al contesto geografico e culturale”.

Riqualificazione del costruito e il ruolo dei materiali

Secondo lei mancano delle tipologie di edifici nelle città moderne?

“Più che parlare di “mancanza” in senso quantitativo – come se fosse solo una questione di costruire nuovi edifici – preferisco ragionare in termini di adeguatezza rispetto ai bisogni reali. Ciò che manca, semmai, è una distribuzione capillare e coerente delle funzioni che servono davvero ai cittadini.

Lo vediamo bene oggi, ad esempio, con il tema delle case di comunità: esiste il paradosso per cui molti vorrebbero realizzare nuove strutture, ma non possono, perché sulla mappa nazionale quelle stesse strutture risultano già esistenti. Peccato che, nella realtà, siano spesso solo scatole vuote. 

A monte, c’è un problema di visione strategica e pianificazione urbana. Non servono griglie rigide, ma masterplan concettuali e sociali, strumenti che orientino una rigenerazione vera e lungimirante.

In questo senso, la vera sfida è intervenire sull’esistente. È più complesso, certo, e spesso meno “spettacolare” rispetto al nuovo. Ma viviamo in un Paese con il più alto numero di siti UNESCO al mondo: il nostro patrimonio edilizio è immenso, e dovremmo imparare a valorizzarlo senza svenderlo al turismo, né piegarlo unicamente a logiche economiche.

Servirebbe un cambio di mentalità, fondato su due concetti cardine: città rigenerativa ed edificio come magazzino di materiali. La prima implica smettere di consumare nuovo suolo e recuperare ciò che già esiste, con creatività e intelligenza energetica. Il secondo significa progettare fin dall’inizio edifici flessibili, disassemblabili, i cui materiali siano tracciati e riutilizzabili: in Norvegia, la “casa circolare” già consente il riuso del 90% dei componenti.

Infine, non possiamo ignorare il tema del verde urbano e della biodiversità. Il verde non è decorazione: è infrastruttura vitale, equilibrio ambientale, salute pubblica. L’Europa si sta muovendo: modelli come Barcellona o Bristol applicano già principi come il 3-30-300 (3 alberi visibili da ogni abitazione, 30% di copertura arborea, massimo 300 metri da uno spazio verde accessibile). 

Con 5 miliardi di persone che entro il 2050 vivranno nelle città, non possiamo più permetterci di continuare con l’approccio di sempre”.

Quello dei materiali è un tema che sta particolarmente a cuore a Filippo Taidelli.

“Credo che si parli ancora troppo poco del ruolo dei materiali e, soprattutto, di come vengono utilizzati. La materia prima è una risorsa fondamentale, eppure spesso viene considerata solo a valle del progetto, come se fosse una scelta tecnica e non culturale.

È qui che torna centrale il concetto di progettazione integrata: serve un dialogo continuo tra progettisti e aziende produttrici, per creare una filiera consapevole e aggiornata. Questo collegamento va costruito fin dall’università, dove manca ancora un vero ponte tra teoria e pratica. E la pratica significa anche conoscere le aziende, i materiali, le tecnologie applicabili.

Più che limitarsi alle fiere di settore, dovremmo creare spazi di incontro strutturati e costruttivi tra chi progetta e chi produce. Fortunatamente stanno nascendo nuove forme di networking, e credo che questo match – tra creatività e innovazione industriale – sia uno stimolo importante per tutti noi.
Gli studi strutturati che possono permettersi team dedicati alla ricerca sui materiali e hanno vere e proprie “material libraries” interne sono pochi. Ecco perché è essenziale costruire sistemi condivisi, accessibili e orientati alla qualità. Anche in questo caso, è una questione culturale prima ancora che tecnica”.

La monografiaFilippo Taidelli. Architetture scelte 2012–2024

Come sono stati selezionati i dieci progetti presenti nella monografia? 

“All’inizio, devo ammettere, l’idea di condensare quindici anni di lavoro in una selezione mi ha generato un certo panico. Ma poi, grazie anche al confronto con i miei collaboratori, ho capito che poteva essere un’opportunità: individuare dieci tappe emblematiche attraverso cui raccontare una visione del futuro, ma anche mettere a fuoco il fil rouge che lega i nostri progetti.

La selezione ha fatto emergere con maggiore consapevolezza i punti di forza del nostro approccio. Ogni progetto è come una “stellina di una costellazione”: non ce n’è uno preferito, ma ciascuno rappresenta un mattoncino fondamentale nella costruzione della mia identità professionale. Un percorso che si è formato nel tempo, dentro un mondo reale, concreto, fatto di vincoli ma anche di enormi possibilità.

Ogni intervento racconta una faccia diversa di questo poliedro progettuale: se parliamo di retrofit, penso all’edificio Zenale; se guardiamo alla didattica del futuro, c’è l’hangar della conoscenza: l’edificio Roberto Rocca Innovation Building nato dalla partnership tra Humanitas University e Politecnico di Milano; per la sanità, l’Emergency Hospital 19 progettato in tempi record durante il Covid è stato un esperimento non solo tecnico, ma profondamente umano.

La mia formazione si è consolidata proprio nel pensare all’edificio come a un organismo vivente. Questo ha dato forma al nostro DNA professionale: multidisciplinare, aperto, adattabile. Abbiamo avuto la fortuna – o forse il merito – di spaziare tra destinazioni d’uso e scale molto diverse, dalla lampada disegnata per Fontana Arte fino a campus universitari di oltre 60.000 m².

Se dovessi sintetizzare i tratti comuni dei progetti selezionati, potrei ricorrere a due espressioni che ricorrono spesso nel mio lavoro: buon senso costruttivo e bello terapeutico. A questi si aggiunge un principio imprescindibile: la sostenibilità economica. Rispettare i budget non è un vincolo, ma una sfida progettuale che impone serietà, chiarezza e la capacità di far comprendere al cliente dove risiede il vero valore di un’opera ben costruita”.

Come abbiamo detto, in ogni progetto si parte da quello che l’Architetto definisce il feticcio, ovvero “quell’immagine che mi colpisce dal primo sopralluogo e mi accompagna fino alla fine, ma non è una sorta di rivelazione divina, è un’immagine sfuocata. Per esempio è la cashba di Rozzano per il campus, il muro di mattoni di Zenale, il double face di Verago…”.

Questo approccio è evidente in molti progetti tra cui il Roberto Rocca Innovation Building, sede del corso di laurea in Medicina e Ingegneria Biomedica a Pieve Emanuele, dove la flessibilità degli spazi e l’uso del legno come materiale principale riflettono una visione orientata al futuro e al benessere degli utenti.

Roberto Rocca Innovation Building
Roberto Rocca Innovation Building – Credits Giovanni Hanninen

L’edificio, certificato Leed Gold, è stato premiato al Wood Architecture Prize 2024 di Klimahouse, per la sua architettura in legno lamellare, unita a cemento, metallo e vetro, e per il suo layout planimetrico rigoroso e flessibile. Progettato come un “light box”, favorisce la luce naturale, l’interazione visiva e il benessere degli utenti. Definito dall’architetto come un “hangar della conoscenza”, il progetto integra innovazione tecnologica e sostenibilità, rispondendo alle esigenze dinamiche della didattica in medicina e ingegneria biomedica.

Interno Roberto Rocca Innovation Building
Credits Giovanni Hanninen

Ricordo ancora il giorno in cui il presidente del gruppo Humanitas mi chiese di realizzare un edificio che rappresentasse la potenza tecnologica e l’innovazione futuribile. Sono tornato a casa pensando di dover fare un gesto muscolare, un edificio organico, l’attenzione, il feticcio, in quel caso era il legno, che per me è il mattone del futuro“.

Progettare, spiega Taidelli, è tessere una trama invisibile che garantisca all’utente la possibilità di fruire gli spazi in libertà, ordinandoli e facendoli propri.

Questa filosofia si traduce in edifici che non sono semplici contenitori funzionali, ma spazi che favoriscono la rigenerazione e il comfort, come dimostra l’Emergency Hospital 19 un ospedale modulare, smontabile, flessibile e sostenibile, realizzato in soli tre mesi accanto all’Humanitas di Rozzano, durante la pandemia.

FTA Emergency Hospital
Emergency Hospital 19 – Credit Giovanni Hanninen

La struttura si basa su moduli prefabbricati replicabili, facilmente trasportabili e riconfigurabili, organizzati per funzioni cliniche distinte, come pronto soccorso, terapia intensiva, degenza e diagnostica. Grande attenzione è stata riservata al benessere del paziente, con ambienti luminosi, materiali naturali, colori rasserenanti e un uso strategico del verde terapeutico.

Dal punto di vista ambientale, è un edificio ad alta efficienza energetica, dotato di involucro termicamente performante, doppia pelle adattiva e facciate con lamelle frangisole colorate. Il sistema passivo di controllo climatico riduce i consumi e massimizza il comfort interno, rendendolo un modello replicabile anche in altri contesti. 

La monografia: un viaggio tra progetti e idee

Curata da Maurizio Carones e con testi di Alessandro Benetti, la monografia fa parte della collana “Progressive. Sezioni sull’architettura italiana” di Forma Edizioni. Il volume non si limita a presentare una selezione di progetti, ma offre una riflessione sul concetto di “healthy building”, edifici che vanno oltre le prestazioni energetiche per diventare spazi terapeutici e sostenibili sia sul piano sociale che economico.

Monografia: Filippo Taidelli. Architetture scelte 2012–2024

Tra i progetti analizzati, spicca l’intervento di retrofit dell’edificio Zenale a Milano, dove Taidelli ha saputo integrare soluzioni tecnologiche avanzate, come pompe di calore geotermiche e pavimenti radianti, in un contesto storico, dimostrando come l’innovazione possa dialogare con la memoria architettonica.

FTA intervento di retrofit Zenale Building a Milano
Intervento di retrofit Zenale Building a Milano – Credit Andrea Martiradonna

La monografia rappresenta anche un momento di bilancio per Taidelli, che descrive il suo percorso come un treno in continuo movimento: “Io sono un architetto che deve plasmare lo spazio. Mi sento sempre più come un macchinista di un treno merci che ad ogni progetto accumula un piccolo vagoncino. Ecco, quel treno però ha un limite, non si ferma mai. Come i progetti, deve sempre guardare avanti, fare qualcosa di innovativo, accumulare, accumulare, accumulare, accumulare“.

“Filippo Taidelli. Architetture scelte 2012–2024” è più di una raccolta di progetti: è un manifesto per un’architettura che mette al centro l’essere umano, proponendo spazi che non solo rispettano l’ambiente, ma che contribuiscono attivamente al benessere delle persone. 

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