Edilizia per il Terziario: orientamenti per la progettazione

In queste brevi note è “distillata” in forma sintetica, ma comunque esaustiva, l’attività di studio svolta dall’autore, presso la Facoltà di Ingegneria di Bologna, nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Ingegneria Edilizia e Territoriale IX ciclo, e relativa al tema: “Processo tipologico dell’edilizia per il terziario”.
In particolare, sono qui rielaborate le conclusioni di quel lavoro, ovvero gli orientamenti operativi per il progetto – a livello di tendenze e linee culturali di massima -, inerenti i diversi caratteri tipologici in cui (secondo un metodo di analisi proprio della scuola tipologica) si è provveduto a sezionare l’ambito dell’edilizia per il terziario direzionale amministrativo: caratteri funzionali, caratteri distributivi, caratteri costruttivi, caratteri costitutivi dell’involucro, modelli di controllo ambientale,… rappresentano, dunque, altrettante voci di una più generale fotografia istantanea – e, in proiezione di linee evolutive, futura -, che viene qui proposta all’attenzione di studenti e professionisti del settore.
Completano questo quadro metaprogettuale alcuni apporti di tipo strumentale utili per orientarsi nella produzione editoriale e manualistica relativa alla progettazione di edifici per uffici, ovvero un glossario di termini specialistici (per lo più di origine anglosassone), una bibliografia ragionata, suddivisa per filoni di approfondimento di singole aree tematiche, e alcune schede bibliografiche riferite ai testi di maggior significato critico o di più diretta utilità pratico-operativa.

Didascalie immagini

Foto 1. Nell’edilizia contemporanea per il terziario, il corridoio perde il suo carattere di semplice connettivo senza qualità e si articola in aree attrezzate, spazi di servizio, zone di sosta e relax, balconate di affaccio su volumi a doppia altezza, passerelle sospese… sdoppiandosi, dilatandosi o stringendosi a seconda delle necessità, sì da rendere anche percettivamente più ricco l’ambiente lavorativo (Elaborazione grafica Arch. Emilio Dimitri Galimberti).
Foto 2. Il corridoio assume il carattere quasi di galleria, dove incontrarsi e scambiarsi informazioni e dati in via informale, magari passeggiando tra esposizioni di materiale vario; oppure che ospita in posizione mediana una spina di spazi “ancillari” (coffee corners, box fotocopie, camere oscure e di rendering grafico) (Elaborazione grafica Arch. Emilio Dimitri Galimberti).
Foto 3. L’atrio a tutt’altezza costituisce uno dei tratti distintivi della quasi generalità della produzione edilizia per terziario degli ultimi anni; una soluzione verso cui spingono ragioni di efficienza ambientale e di efficacia distributiva, oltre che di gradevolezza dell’habitat ufficio (Elaborazione grafica Arch. Emilio Dimitri Galimberti).
Foto 4. I luoghi di aggregazione e di relazione informali, quali gli snack-corner, assumono un’importanza strategica nella circolazione delle informazioni e, quindi, nel successo delle politiche strategiche d’azienda (Elaborazione grafica Arch. Emilio Dimitri Galimberti).
Foto 5/6. L’involucro si caratterizza sempre più quale filtro dinamico capace di selezionare gli apporti energetici in relazione agli effetti desiderati al variare delle condizioni climatiche esterne (Arch. Renzo Piano, Nuova sede de Il Sole 24 Ore a Milano).
Foto 7. Arch. Dante O.Benini, Nuova sede Torno a Milano.
Foto 8. Arch. Mario Cucinella, Complesso per terziario in Via Borgognone a Milano.

Capitolo 1: Tratti generali dell’evoluzione dell’edificio per uffici

Attività d’ufficio diffusa e ufficio polare
Le modificazioni intervenute per effetto della rivoluzione informatica degli anni ‘80 nei modi di elaborazione e trasferimento delle informazioni (cioè nelle attività che costituiscono l’essenza del terziario direzionale amministrativo), hanno avviato un profondo ripensamento di quale debba essere, al giorno d’oggi, la natura del luogo di lavoro.
Affidati ai computer i compiti di routine, è sulla capacità di concepire idee nuove e vincenti da parte dei propri manager che si gioca la competitività delle società del settore.
Le sedi di queste, pertanto, si avviano sempre più a diventare luoghi di incontro e di scambio, anche informale di opinioni e dati raccolti altrove, direttamente sul mercato, e oggetto, magari, di una prima elaborazione domestica (tele-lavoro, home working).
L’ufficio tende, quindi, da un lato a configurarsi quale attività diffusa e integrata (spazialmente e temporalmente) con le altre funzioni dell’abitare – residenza, produzione -, dall’altro a connotarsi quale club house, centro regionale di servizi, sorta di circolo con un ridotto numero di postazioni di lavoro e una crescente dotazione di spazi (cosiddetti “ancillari”, ma in realtà di primaria importanza) per riunioni, convegni e conferenze, proiezioni, corsi di aggiornamento, brain storming, colazioni di lavoro (1).
Una serie di attività che, periodicamente, coinvolge operatori “remoti” e addetti delle reti territoriali per momenti di confronto collettivo sui risultati conseguiti e sulle strategie per il medio-lungo periodo, suggerendo pertanto una collocazione urbana degli headquarters, così in posizione baricentrica rispetto alle aree operative e di più facile accessibilità (aeroporti, autostrade, stazioni,…).

Luogo dell’abitare
I trascorsi decenni sono stati l’età d’oro dell’open space, dell’ufficio fabbrica con gli impiegati disposti a formare una “catena di montaggio” dell’informazione, secondo i principi di organizzazione scientifica del lavoro, riveduti e corretti, di Taylor.
Anche per questo aspetto, tuttavia, la rivoluzione informatica, unitamente a un’accresciuta attenzione da parte delle corporations per le condizioni di comfort dei propri operatori (ovviamente con un occhio – e non solo uno – alla loro produttività) ha determinato un ripensamento di siffatta concezione. Dai primi tentativi limitati alle sole soluzioni di arredo (Action Office, Landscape Office), si è passati così a una più radicale trasformazione dello spazio di lavoro.
Volendo riassumere i tratti essenziali delle modifiche intervenute, possiamo sintetizzarli nello slogan “centralità dell’uomo e non del processo produttivo” (ove la particolare natura della produzione del settore, che si concretizza in servizi, non cambia il registro del discorso).
Sotto la spinta di un malinteso funzionalismo meccanicistico, infatti, si era finito con l’impostare i progetti degli edifici per uffici sui soli diagrammi dei flussi e dei contatti fra i diversi reparti dell’organizzazione terziaria, anteponendo l’astratta efficienza di questa alle esigenze psicologiche e fisiche del lavoratore utente. Il risultato è stato il manifestarsi di sindromi patologiche (riassunte sotto il nome collettivo di sick building syndrome) e cali nel rendimento dei white collars. Un complesso di fenomeni che i più recenti green buildings si propongono di superare, riconducendo le ragioni del progetto alla primaria considerazione dei requisiti di benessere degli occupanti.

Integrazione funzionale
Quella della commistione delle funzioni – terziario, residenza, commercio, … – non è una strada nuova nel campo dell’edilizia per uffici. In particolare l’Italia, vuoi per il minor sviluppo del settore che l’ha caratterizzata sino a tutti gli anni Settanta, vuoi per il più forte peso di una tradizione urbana ancora presenza “viva”, può vantare una vasta messe di realizzazioni improntate a questo principio (2).
A renderlo nuovamente attuale, a livello internazionale, oltre a elementi facilmente desumibili dai punti precedenti, anche il carattere di luogo dell’abitare (e non più di “macchina per il lavoro”) che l’edificio per uffici va riassumendo sotto la spinta della rivoluzione informatica e dell’accresciuta coscienza ecologica. Le varie funzioni sono così tornate ad avere caratteri omogenei e, quindi, come tali, facilmente riunibili in un unico organismo edilizio. Significativo a proposito il richiamo di Christopher Alexander, affinché‚ lo spazio ufficio sia organizzato come una casa: “In ogni caso create per tutto l’ufficio spazi tanto differenziati, per tipo e dimensioni, quanto quelli di una vecchia grande casa” (3).

Edificio organismo
Come detto l’edificio per uffici riacquista la sua primaria essenza di sistema e organismo complesso, che la specializzazione funzionale delle “scatole” International Style aveva scomposto e ricomposto in un sincretismo (e non in una sintesi) di caratteri fra loro giustapposti. Un assemblaggio secondo i principi della coordinazione modulare che lasciava, tuttavia, distinti e distinguibili i diversi piani del progetto (funzionale, distributivo, tecnologico,…), frammentando l’inscindibile unitarietà del tipo.
Una concezione che, alla lunga, ha mostrato tutti i suoi limiti in termini di comfort dell’utenza, di consumi energetici e di costi di gestione e che ha quindi necessitato di una radicale inversione di tendenza.
E non si tratta solo di un legame “tutto interno”, fra le diverse parti e i differenti caratteri costitutivi dell’edificio, ma anche di un rinnovato aprirsi al dialogo con l’intorno urbano, prodigo di suggerimenti, sia in termini di concezioni spaziali, sia in termini di soluzioni tecnologiche, (purché‚ uno si disponga all’ascolto). Sì che l’edificio per uffici si riappropria anche del suo ruolo di “individuo sociale”: non più un oggetto architettonico alteramente staccato dal tessuto circostante – e anzi a questo deliberatamente in contrapposizione – in nome di un efficientismo funzionale tutto da dimostrare, ma parte integrante di un più ampio e generoso discorso che coinvolge la complessiva “forma urbis”.

Downsizing
Ulteriore effetto della diffusione dei personal computers è la possibilità di contenere notevolmente le dimensioni delle sedi e delle società del terziario avanzato.
“Sul piano del progetto d’architettura, oggi i siti virtuali forniscono alternative sempre più competitive alle tipologie costruttive tradizionali. (…) Sportelli Bancomat e sistemi bancari a domicilio si sono moltiplicati, e (negli Stati Uniti, almeno) migliaia di filiali di banche hanno dovuto chiudere i battenti. Gli investitori in complessi per uffici cominciano a preoccuparsi per il tele-lavoro e il tele-pendolarismo.
(…) Perciò, dei progetti che, non molto tempo fa, sarebbero stati, senza ombra di dubbio, realizzati nella materia e nello spazio, oggi possono essere invece portati a termine con dispositivi elettronici e tramite software” (4).
Al di là di scenari per ora ancora avveniristici, resta comunque il dato fatto di una concreta possibilità (in alcuni casi già tradotta in realtà) di minimizzare metri quadri e metri cubi nella realizzazione degli edifici per uffici. Da un lato, infatti, i progressi nel campo dell’informatica riducono il personale necessario nella gestione dei flussi di informazione; dall’altro, l’opportunità, soprattutto in determinati settori (per esempio quello dei servizi di consulenza), di sostituire le postazioni fisse con periferiche mobili (telefono cellulare, computer portatile, modem, …) consente di svolgere buona parte delle attività lavorative fuori sede, presso il cliente, oppure a casa propria.
I due fattori congiunti concorrono, così, a determinare una forte contrazione delle esigenze spaziali (e dei relativi alti costi di locazione o di immobilizzo dei capitali) delle società terziarie.

Rightsizing
Finita l’epoca dell’edificio per uffici concepito quale vuoto contenitore (lo speculative building della pratica immobiliare anglosassone), indifferente all’effettivo nucleo di utenza destinato ad occuparlo, in virtù di una flessibilità distributiva totale, l’odierna flessibilità delle corporations, che è nei modi di organizzazione del lavoro, richiede per contro un’esatta corrispondenza fra esigenze della committenza e requisiti spaziali degli ambienti. L’edificio diviene esso stesso un fattore determinante di successo o di insuccesso sui mercati per l’impresa, con il suo evitare sopra o sottodimensionamenti rispetto alle attività svolte, e con l’agevolare, anzi meglio con il favorire, la piena efficacia dei flussi di informazione.
Le enormi quantità di metri cubi invenduti e sfitti di edifici per uffici di speculazione, presenti attualmente in tutte le maggiori città europee, testimoniano la necessità di rivedere radicalmente le strategie di mercato dell’offerta immobiliare per questo specifico comparto. La presunta flessibilità universale dei parallelepipedi cristallini dell’International Style, infatti, con il suo rispondere a uno standard “medio” di requisiti, si è trasformata in un fattore di rigidità non ammortizzabile dalle imprese, che sempre più necessitano di soluzioni ad hoc.
Anche per questo aspetto, quindi, si può ben dire che la cultura dello standard, tipica della società industriale, non appare più in grado di soddisfare le esigenze della società contemporanea.

Tipo a blocco
Fra le tre principali differenti tipologie, con cui sono stati realizzati buona parte degli interventi terziari degli ultimi anni, – “a torre”, “in linea” e “a blocco” -, pur non potendo generalizzare valutazioni che molto dipendono dalle peculiarità del contesto d’intervento (chiamanti in gioco oltre che parametri architettonici anche fattori più latamente ambientali e urbanistici, quali l’orientamento del lotto di intervento ed elementi di viabilità e trasporti) e che fanno quindi sì che, ad oggi, i tre tipi siano tutti praticati in maniera relativamente diffusa, è comunque dato indubbio che nell’ancora omogeneo tessuto della città europea, fondato soprattutto nelle aree centrali sull’isolato, è il tipo “a blocco” ad incarnare meglio il compromesso ottimale fra i diversi fattori concorrenti nel definire l’edificio per uffici contemporaneo.
Al di là dei richiami della filosofia del rightsizing, che ovviamente penalizza la tipologia “a torre”, il blocco è infatti il tipo che più si presta a soddisfare i criteri di articolazione spaziale e di integrazione nella trama dei percorsi urbani alla base dell’odierna progettazione di edifici per terziario.

Note
1) Si veda, in proposito, quanto affermato da Luigi V. Mangano: “(…) Le esigenze delle -electronic communities-, e cioè dei lavoratori della conoscenza che utilizzano modalità lavorative legate ad un uso sempre più intensivo delle Tecnologie Informatiche e località diverse dall’’ufficio tradizionale continueranno a diffondersi ed a influenzare l’habitat ufficio del Duemila, la sede resterà comunque -un nodo in rete per interscambi sociali ed un centro culturale-”.
(Luigi V. Mangano, “Re-inventare l’ambiente di lavoro per progettare il futuro”, in Habitat Ufficio, n.83, dicembre-gennaio 1997, pagg.52-59).
2) In proposito si veda l’articolo di Michele Furnari, “Edifici per abitazioni e uffici – L’esperienza italiana”, in Abitare, n.343, settembre 1995, pagg.146-148.
3) Christopher Alexander, “Appunti sul -Pattern Language- nell’ufficio”, in “Album n.2, Progetto Ufficio”, Electa Periodici, Milano, 1983, pagg.97-101.
4) William S. Mitchell, “L’era della connettività”, in Casabella, n. 637, settembre 1996, pag. 1.

CAPITOLO 2: Aggregazione in tessuti edilizi

La chiave di lettura del contemporaneo edificio per terziario direzionale amministrativo, riguardato sotto l’aspetto della sua potenzialità o meno di dare vita a tessuti edilizi omogenei, è già scritta nei caratteri che esso è venuto assumendo in questi primi anni Novanta, come da noi brevemente sintetizzati nelle precedenti note.
Luogo dell’abitare, edilizia specialistica polare, organismo architettonico quale tipo edilizio,… questi i tratti di un’architettura che, indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso, non dimentica di essere parte integrante di un più generoso discorso urbano e civile e che, in ogni caso, pur non negando il suo carattere specialistico, attribuisce alla funzione che ospita il suo giusto valore di espressione della cultura socio-tecnica (centrata, quindi, sull’uomo –1-) di una ben definita soglia temporale.
Essenziale, soprattutto, ai fini di questo recuperato ruolo dell’edilizia per il terziario direzionale amministrativo, il passaggio, che sarà analizzato più approfonditamente in un successivo capitolo, relativo ai caratteri distributivi, da edifici a “spazio a struttura unitaria” o, al più, a “spazio unico a elementi modulari” – per loro stessa natura intrinseca incapaci, quindi, di porsi se non quali segni urbani a grande scala -, lascito della stagione del Moderno, a edifici “a vani unitari gerarchizzati”, associati con leggi analoghe a quelle di un tessuto di edilizia di base (2).
Si evidenzia, così, per la tipologia considerata, una sorta di percorso circolare che ci riconduce, dopo molteplici vicende e gli sviluppi, a posizioni vicine a quelle delle origini. Se, infatti, il palazzo per uffici, non diversamente da quanto avvenuto per gli altri tipi dell’edilizia specialistica (cioè “il sistema di edifici, presenti in ogni nucleo urbano, a destinazione diversa da quella residenziale -per famiglie- – edilizia di base” – 3 -), si è venuto progressivamente specializzando nel tempo, per mutazioni dei tipi di base, al fine di assolvere a particolari funzioni di servizio, è anche vero che le più significative e recenti interpretazioni di questo peculiare tema progettuale fanno intravedere il ritorno (pur, ovviamente, in forme e con approcci differenziati) alle matrici di partenza. Un fenomeno confermato da un altro dato e cioè la possibilità di interscambio di funzioni che la nuova edilizia per uffici permette e che, prendendo le distanze dagli eccessi di specializzazione propri – paradossalmente – dei grandi contenitori open space dei trascorsi decenni (4), riavvicina le tipologie terziarie a quelle residenziali.
L’ufficio, quindi, torna ad assumere il ruolo di studio, luogo dove riflettere ed elaborare le informazioni per sviluppare idee vincenti o per incontrare persone in un’atmosfera rilassante e domestica. Non a caso, Francis Duffy, Chairman della Degw International Limited (una delle più importanti strutture di office planning a livello mondiale), partecipando alla V Conferenza Internazionale “L’ufficio virtuale – Organizzazioni, Spazi e Tecnologie del Quaternario” (Milano, 13 ottobre 1995), sintetizzava efficacemente le conseguenze dei cambiamenti intervenuti a livello di macroeconomia, in termini di produzione edilizia per il terziario direzionale amministrativo, in tre serie di effetti principali (5):“la casa invade l’ufficio”, “l’ufficio invade la casa”, “un nuovo disegno urbano”. E relativamente a quest’ultimo punto, che qui più direttamente ci interessa, portava come esempio gli Inns of Court londinesi (corti e piazzette su cui si affacciano le club houses delle corporazioni forensi inglesi), sottolineando l’importanza assunta dagli spazi di interazione e di aggregazione sociale nella vita dell’ufficio contemporaneo e dalle tipologie a destinazione mista residenza -lavoro.
Un terziario, dunque, non più antagonista della città – proiettato al suo esterno, in contesti ambientali decongestionati nei sobborghi dei centri urbani (salvo, poi, con il traffico del pendolarismo indotto contribuire notevolmente alla congestione delle arterie di percorrenza), o superbamente addensato a formare dei centri direzionali ad essi alternativi -, ma, al contrario, pienamente partecipe delle logiche, tipologiche e morfologiche, generative dei tessuti insediativi.
Suggestioni condivise dal Prof. Federico Butera (6) che, nella stessa occasione milanese, richiamava l’attenzione sul problema del rapporto fra comunicazione reale e virtuale, indotto dalle nuove potenzialità informatiche, ovvero sull’eventuale perdita di senso di un terziario fisicamente e concretamente costruito, in virtù della sua sostituzione con il telelavoro: “In sintesi gli uffici del futuro si muovono fra virtuale e reale, ma non possono essere strutture senza fisicità e sciogliersi e despecializzarsi in flussi di comunicazione entro reti tematiche “aspaziali”: il rischio è di progettare una società anonima e agorafobica come quella descritta da C.D. Simak nel bellissimo romanzo di fantascienza “City”. Al contrario gli uffici del futuro vanno progettati come luoghi, come organizzazioni evolute, come sistemi sociotecnici, come piccole società, come dispositivi per proteggere e sviluppare insieme efficienza/efficacia economica e qualità della vita: naturalmente la concezione di tali luoghi/organizzazioni/gruppi sociali sarà a 180 gradi da quelle sviluppate nel taylor-fordismo”
(7).
Una rivoluzione epocale, dunque, che coinvolge l’architettura dell’ufficio in tutti suoi molteplici aspetti, compresi quelli formali, e che segna, in misura evidente, una cesura nella storia e nel percorso creativo di alcuni architetti più direttamente impegnati su queste tematiche. E’ questo, per esempio, il caso di Michael Hopkins, noto progettista inglese di spazi per terziario, che è passato dal concepire l’architettura come un qualsiasi prodotto di design industriale (“Tutta la nostra prima produzione consisteva in edifici a struttura autoportante che potevano essere collocati in qualsiasi contesto (…) io concepivo la progettazione come una produzione di oggetti che atterravano in un qualsiasi lotto senza bisogno di essere integrati al contesto in alcun modo”, ha affermato in una recente intervista – 8 – pubblicata sulla rivista Controspazio), ad una grande attenzione per il genius loci assunto programmaticamente quale incipit del processo progettuale.

Note
1) Per cultura, infatti, si intende: “Il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali” (nella definizione del “Vocabolario illustrato della lingua italiana” di G.Devoto e G.C.Oli – Vedi riferimenti in bibliografia), una nozione quindi pensabile solo in relazione a un soggetto antropico attivo di cui essa è, per l’appunto, manifestazione.
2) Per le relative definizioni, si veda il più volte richiamato: Gianfranco Caniggia, abaco allegato al volume – “Strutture dello spazio antropico”, Alinea Editrice, Firenze, 1981.
3) Gianfranco Caniggia, ibidem.
4) Si veda al proposito la nota 1 del successivo paragrafo 8, “Modelli organizzativi del processo progettuale”.
5) “(…) 11) Consequences of Change 1
Home invades the office
– new timetables/- new pattern of occupation/- new support services/- new forms of organisation
12) Consequences of Change 2
The office invades home
– new timetables/- new equipment/- new stresses/- new dangers/- new conventions needed
13) Consequences of Change 3
The redisign of the city
– new patterns of commutino/- new types of office accomodation: club, factory, home, college, neighbourhood work centres/- new importance of spaces for interaction/- new importance of mixed use buildings/- a new unpredictability”
(Francis Duffy, “Designing the Most Effective Use of Time and Space in the New Office”, Atti della V Conferenza Internazionale “L’ufficio virtuale – Organizzazioni, Spazi e Tecnologie del Quaternario” – Milano, 13 ottobre 1995).
6) Federico Butera è Professore Ordinario di Sociologia dell’Organizzazione presso l’Università di Roma “La Sapienza”.
7) Federico Butera, “Telematica e lavoro: contesti virtuali, organizzazioni vitali, persone reali”, in Atti della V Conferenza Internazionale “L’ufficio virtuale – Organizzazioni, Spazi e Tecnologie del Quaternario” – Milano, 13 ottobre 1995).

CAPITOLO 3: Caratteri funzionali

Come più volte ricordato, la rivoluzione informatica rappresentata dall’introduzione sul mercato dei personal computer ha profondamente modificato modi e tempi del lavoro di ufficio.
Il passaggio da organizzazioni delle attività ancora profondamente radicate nella cultura massificante e standardizzata tipica della società industriale ad altre già apertamente proiettate nel mondo post-industriale ha significato, in primo luogo, la transizione da modelli organizzativi (i layout della letteratura specialistica) fondati sulla flessibilità spaziale, a nuove formule essenzialmente giocate sulla flessibilità temporale.
Se, infatti, l’ufficio tayloristico trovava la sua piena e compiuta espressione nella distribuzione in pianta delle postazioni di lavoro, secondo un disegno dettato dai flussi delle pratiche nel loro processo di elaborazione interna all’ufficio (per cui a tot passaggi corrispondevano tot addetti e, quindi, un parimenti corrispondente numero di metri quadri), l’ufficio post-industriale – affidati tali passaggi alla spazialità virtuale del calcolatore elettronico, che riproduce con la struttura ad albero della sua memoria un’analoga organizzazione gerarchica piramidale – si fonda sul succedersi degli eventi: meeting, riunioni, incontri, stage…; situazioni specializzate che, configurandosi quali episodi “discreti” e non “continui” (per utilizzare un’immagine di logica matematica), scardinano il principio di “territorialità” – “a ogni persona il suo posto” – sinora indiscusso principio regolatore della vita d’ufficio.
Miniaturizzate e rese portatili le strumentazioni di lavoro (queste sì, personali), l’office planning contemporaneo è soprattutto un’attenta valutazione delle intersezioni temporali degli operatori in un ufficio sempre più concepito quale luogo di periodico e informale scambio degli input ricavati direttamente dalla frequentazione del mercato.
Questo, ovviamente, non significa che non si debba prestare una più che accurata attenzione al problema della progettazione degli ambienti destinati ad accogliere tale turn-over di attività, che‚ anzi, proprio il dipendere lo spazio dalla variabile esterna tempo, non consente quei margini di flessibilità a posteriori, in caso di errore, che erano più facilmente recuperabili negli open spaces della recente tradizione (in cui “un posto” si riusciva sempre a ricavare). Occorrono, infatti, come detto, luoghi specificatamente studiati per determinati eventi (per il loro tempo: i loro ritmi, le loro pause,…) e in misura tale che questi siano ordinatamente ed efficacemente effettuabili, senza sprechi di risorse.
Al problema quantità, in altri termini, si è aggiunto – e anzi sostituito nel ruolo di primo e determinante elemento di progetto – la qualità: dei materiali, delle tecnologie, delle condizioni microclimatiche, delle finiture.
L’aspetto più interessante di questa rivoluzione copernicana è che, dal punto di vista della configurazione degli spazi, bandita la “pianta libera”, con la sua in linea teorica infinita possibilità di suddivisione (ma priva, di necessità, della capacità di dar vita a spazi mirati), tutto ciò si traduce nella realizzazione di ambienti ad hoc – e quindi come tali univocamente definiti (fissi) nelle loro caratteristiche – ma suscettibili di un diversificato e flessibile uso nel tempo (1).
Si tratta, in altre parole, della conferma della validità del più volte ricordato richiamo di Christopher Alexander a che l’edificio per uffici presenti spazi tanto differenziati, per tipo e dimensioni, quanto quelli di una vecchia grande casa (2).

L’ufficio contemporaneo, sintetizzando, tende, quindi, a connotarsi quale centro di servizi di supporto all’attività svolta altrove (rispetto al luogo ufficio) e in forma sempre più autonoma dal singolo white collar.
I moderni modelli di organizzazione del lavoro, infatti, per quanto attiene i rapporti fra i membri dello staff operativo prevedono l’attuarsi di schemi a rete, con gli operatori (o piccoli gruppi di loro) direttamente e contemporaneamente in contatto con l’intera struttura imprenditoriale. Scomparsa (o in via di sparizione) la figura dell’impiegato alla “Bristol” (dal nome del celebre personaggio delle strisce a fumetti, paragonabile all’italiano “Fantozzi”), completamente deresponsabilizzato e frustrato dal suo essere “inchiodato” alla scrivania, gli addetti del terziario attuale tendono ad assumere, in forma generalizzata, iniziative decisionali e margini di manovra propri del livello dirigenziale. “Da cellula, luogo di lavoro autonomo teso verso uno scopo, l’ufficio è oggi agli occhi di tutti un neurone del sociale per i suoi collegamenti di dipendenza, di interrelazione con altri uffici, luoghi e funzioni.
L’innovazione telematica è lo strumento che accelera l’interdipendenza funzionale, in un certo senso è il nervo che trasmette i segnali” (3).
Anche in questo nuovo ruolo dell’impiegato, dunque, come abbiamo avuto modo a suo tempo di rimarcare, una parte fondamentale è stata giocata dal computer, che ha eliminato la necessità di disporre di ampie schiere di addetti alla manipolazione dei dati, è ha per contro consentito la liberazione delle loro energie creative. Energie che costituiscono il vero patrimonio dell’impresa e che sono fondamentali per sviluppare strategie competitive e mantenere livelli di produttività adeguati alle nuove sfide della moderna società “villaggio globale”.
Il risultato del sommarsi delle trasformazioni test‚ descritte, sul piano dei ricordati layout, si è tradotto in un contemporanea compresenza, nelle formule cosiddette combi office (note anche con i nomi di hot desk, hotelling, … e di origine nordeuropea), di uffici riconducibili sia alle più tradizionali soluzioni cellulari (i box office), sia di unità meno strutturate per momenti di rapporto collettivo e informale, sia di ambienti di tipo quasi domestico per contatti che assumano valenze di maggior riservatezza.
Una pluralità (in termini qualitativi) di luoghi che, lungi dal risultare il prodotto di un semplice accostamento di concezioni spaziali antitetiche, è il frutto di una nuova strategia progettuale fondata sulla flessibilità temporale di cui sopra si è detto.

Note
1) “In due successivi studi condotti dalla Bosti (N.d.a. Buffalo Organization for Social and Technical Innovation) nei quali viene condotta una vasta indagine sulle relazioni fra le organizzazioni e le sistemazioni loro relative, vengono individuate cinque fasce di caratterizzazioni per i lavoratori degli uffici a cui corrispondono diversi livelli di operatività:
1. manageriali esecutivi, per pianificazione, direzione e contatti personali e via telefono a livello di direzione;
2. manageriali intermedi di supervisione, per amministrazione e contatti diretti con la forza lavoro a livello di supervisione;
3. professionisti, per sviluppo, valutazione, lettura, analisi e raccordo informativo per i professionisti;
4. segretariali , per l’attività di supporto, organizzazione, ricevimento, corrispondenza, archivio a livello segretariale;
5. impiegatizi ed operativi alle tastiere, per l’elaborazione di documenti con catalogazione, ordinazione, collazione di informazione e loro processo utilizzando le macchine.
A queste occupazioni vengono associati differenti gradi di chiusura dello spazio. A livelli più alti di segregazione corrispondono le mansioni di maggiore responsabilità e concentrazione. Livelli medi di compartimentazione sono consigliati quando sia importante un continuo interscambio con le altre componenti dell’organizzazione come nel caso del lavoro segretariale.
Lo studio esclude il bisogno di spazi aperti, non ritenendoli indispensabili né per favorire la produttività né tantomeno per incentivare lo scambio sociale, cui, invece, si può provvedere, da un lato, puntando sulla responsabilizzazione del singolo individuo e sul suo inserimento nell’organizzazione e, dall’altro, predisponendo degli spazi che integrino le funzioni lavorative favorendo lo scambio ed il contatto fra gli addetti”.
(Michele Furnari, “Gli uffici”, Laterza, Roma-Bari, 1995, pag.170-171).
2) Sottolinea, al proposito del pensiero di Alexander, Fabrizio Orlandi come le osservazioni di questi propongano “(…) all’attenzione una ulteriore considerazione: che non sia comunque possibile ridurre il problema della progettazione della forma dell’edificio ad un problema di determinazione su base quantitativa; la qualità del prodotto e quindi della progettazione deve nascere da un’attenta analisi del campo di variabilità dei requisiti spaziali e delle prestazioni richieste o attribuite all’edificio, in rapporto ai cambiamenti e alle modificazioni interne cui quest’ultimo è suscettibile nel tempo”.
(Fabrizio Orlandi, in “Spazio Ufficio – Architettura e ambiente di lavoro”, Edizioni Kappa, Roma, 1985, pagg.48-50).
3) Marina D’Amato, “Le relazioni umane nell’ufficio del domani”, in Centro Studi Com, “L’ufficio in via di estinzione ?”, Il Sole 24 Ore, Milano, 1989, pag.52”.

CAPITOLO 4: Caratteri distributivi

L’assetto distributivo degli edifici per uffici è probabilmente il carattere di più diretta e immediata messa in relazione con i modelli di organizzazione delle attività d’impresa. Se questi, infatti, attengono la disposizione nello spazio (e come abbiamo visto per l’età contemporanea, nel tempo) degli operatori e dei loro molteplici contatti, i caratteri distributivi ne costituiscono per così dire il negativo architettonico, la “controforma” destinata ad accoglierne il vitale svolgimento.
Ecco, quindi, che come la diffusione dell’open space aveva comportato un parallelo e rapido diffondersi di spazi, dapprima unici a elementi modulari (ovvero la pianta libera di Corbusiana memoria, con sempre più rade teorie di pilastri al centro della campata), e poi a struttura unitaria, con l’eliminazione degli appoggi intermedi, così il riproporsi ai nostri giorni di ambienti differenziati per tipo e dimensioni – e segnatamente di vani unitari (1) – riorienta la produzione immobiliare del settore terziario (o, perlomeno, dovrebbe riorientare) verso edifici seriali.
Si assiste, in altre parole e per usare una terminologia scientificamente fondata, al passaggio da un’edilizia specialistica “nodale” a una “seriale” (2), con tutte le implicazioni che questo tra l’altro comporta sul piano della possibilità, da parte degli edifici per uffici, di un recupero di un proficuo dialogo con il contesto urbano consolidato.
Al concetto di “flessibilità” si sostituisce quello di “reversibilità”, ovvero la contemporanea compresenza di classi spaziali diversificate all’interno del medesimo edificio e il sussistere di caratteristiche d’impianto che garantiscano un’agevole suddivisione e sottoarticolazione del piano tipo, rendendo possibile – all’occorrenza – sia la realizzazione di grandi ambienti, sia la loro suddivisione in uffici cellulari.
“La capacità dello spazio reversibile di modificarsi, utilizzando le parti esistenti dell’impianto architettonico, dà un’alternativa a quanti criticavano il Bürolandshaft (N.d.a. l’”ufficio paesaggio”) per la sua scarsa identità spaziale dovuta a una debole definizione dei gruppi di lavoro e alla labilità eccessiva dell’organizzazione. E fornisce, invece, un supporto a quelli che osservano negli edifici tradizionali, ipoteticamente di scarsa flessibilità, delle capacità di sopportare profonde riorganizzazioni, riuscendo a fornire una infrastruttura spaziale adeguata ad organizzazioni del lavoro fra loro anche diversissime” (3).
Figlia sempre di questa rinnovata ricchezza nell’articolazione spaziale, e al tempo stesso legata altresì al recupero in corso di tecniche di controllo ambientale di tipo passivo, è la presenza dell’atrio quale elemento forte di organizzazione dello spazio del blocco per uffici (4).
Non vi è praticamente realizzazione contemporanea che non ricorra ad esso quale fulcro generatore del progetto, indipendentemente dalle scelte formali e dai riferimenti linguistici; basti citare, a titolo di esempio, alcuni dei più noti edifici per terziario di questi ultimi anni: l’Arca a Londra di Ralph Erskine; la Galeries Lafayette di Jean Nouvel a Berlino; il Landstingforbundet di Karin Ahlgren e Mats Edblom; i Lloyd’s Insurance Market di Richard Rogers a Londra; la nuova sede della Commerzbank di Norman Foster a Francoforte; il Centro Laboratori Farmaceutici Biotecnologie Eurocetus ad Amsterdam di Dante Benini; le tante realizzazioni di Arup and Associates…
Adeguati livelli di illuminazione naturale anche delle aree più interne del piano tipo (che può così raggiungere una profondità sino a 18 metri), abbondante ricircolo dell’aria aspirata per “effetto camino” da apposite aperture di sommità nei mesi estivi e fonte di calore per “effetto serra” in quelli invernali, sono le fondamentali prestazioni microclimatiche conseguibili grazie a queste grandi coperture vetrate (5), che anche in tema di sicurezza possono dare un contributo essenziale, concentrando e favorendo la fuoriuscita degli eventuali fumi e gas tossici di combustione che si dovessero sprigionare in caso d’incendio.
L’atrio, inoltre, coerentemente a un ufficio concepito quale “luogo dell’abitare”, diviene il punto nodale dello svolgersi della vita di relazione interna all’edificio; qui confluiscono i percorsi che innervano i molteplici reparti e le differenti funzioni e qui si aprono bar, ristoranti, e altri luoghi d’incontro e socializzazione, realizzando una connessione diretta con la trama dei contigui percorsi urbani.
Per quanto attiene, invece, il rapporto spazi ufficio – percorrenze orizzontali, la ripresa di assetti distributivi di tipo seriale inevitabilmente porta con essa‚ la ricomparsa del corridoio (6). Un corridoio, tuttavia, che perde il suo carattere di semplice connettivo senza qualità (che l’aveva a lungo connotato, contribuendo a decretarne l’ostracismo da parte dei sostenitori dell’architettura Moderna e dei loro epigoni) e che si articola in aree attrezzate, spazi di servizio, zone di sosta e relax, balconate di affaccio su volumi a doppia altezza, passerelle sospese… sdoppiandosi, dilatandosi o stringendosi a seconda delle necessità, sì da rendere anche percettivamente più ricco l’ambiente lavorativo. Un corridoio, quindi, che in alcuni frangenti assume il carattere quasi di galleria, dove incontrarsi e scambiarsi informazioni e dati in via informale, magari passeggiando tra esposizioni di materiale vario; oppure che ospita in posizione mediana una spina di spazi “ancillari” (coffee corners, box fotocopie, camere oscure e di rendering grafico) con frequenti attraversamenti in direzione trasversale (a “manica tripla”).
Le trasformazioni in corso nell’impianto degli edifici per uffici coinvolgono, poi, anche i mezzi di comunicazione verticale. Ai moderni ascensori, confortevoli e sicuri, sempre più spesso si associano, quali strumenti di celere movimento all’interno dei luoghi di lavoro, le scale mobili. Una scelta per esempio ormai abituale per Norman Foster (si vedano i suoi progetti per il Willis Faber & Dumas Building a Ipswich, o per la Hong Kong and Shanghai Bank ad Hong Kong), che le usa per conferire vivacità e dinamicità alle grandi hall delle sue opere.
E anche le normali scale, relegate in anni passati al ruolo di “scale di emergenza”, facilmente raggiungibili, ma nascoste alla vista, vedono rivalutato il loro ruolo nelle più recenti realizzazioni, sia in virtù delle loro indubbie valenze estetiche, sia della capacità di soddisfare le esigenze funzionali del nuovo terziario. L’imperativo, infatti, di garantire un’efficace “irrorazione” del complesso sistema ufficio, tende a moltiplicarne la loro presenza, senza poi considerare che il contenimento in altezza degli edifici e le nuove filosofie della “fitness”, cui il personale impiegatizio mostra di essere particolarmente sensibile, ne rendono conveniente e ricercato l’utilizzo.

Note
1) Michele Furnari individua due fattori principali all’origine di questa rinnovata attenzione per l’edificio cellulare, in cui le stanze possono essere occupate singolarmente o da un numero massimo di due/tre addetti:
“1. L’articolazione del lavoro in segmenti condotti individualmente o in piccoli gruppi ed in altri di comunicazione allargata a gruppi più ampi unita alla rete di comunicazione diretta esistente fra le postazioni computerizzate elimina il bisogno di grandi e ininterrotti piani da riempire con file di scrivanie.
2. Diventano più importanti sia per l’aspetto funzionale che per quello sociale, spazi comuni su cui possano affacciarsi gli uffici singoli e dove possano essere organizzate quelle attività comuni a tutti gli addetti, tipo fotocopiatrici, archivi, biblioteche dati, che forzino un processo di circolazione forzata delle persone dagli spazi privati delle stanze a quelli pubblici del parterre”. (Michele Furnari, “Gli uffici”, Laterza, Roma-Bari, 1995, pag.170).
2) Secondo, infatti, un passo chiarificatore di Gianfranco Caniggia: “L’ulteriore distinzione tra edifici specialistici “seriali” e “nodali” occorre per separare gli edifici caratterizzati da una strutturazione a vani, paritetici od anche gerarchizzati, associati, con leggi analoghe a quelle di un tessuto di edilizia di base, dagli edifici in cui la presenza di un vano unitario, più o meno ampio, è preponderante rispetto a vani accessori eventualmente associati”.
(in Gianfranco Caniggia, abaco allegato al volume: “Strutture dello spazio antropico”, Alinea Editrice, Firenze, 1981).
3) F.Duffy, C.Cave, J.Worthington, “Planning Office Space”, The Architectural Press, London, 1976, pagg.204 e segg.
4) In proposito si veda Laura Verdi, “Piazze sotto vetro”, Modulo, n.207, dicembre-gennaio ‘94/’95, pagg.1186-1191, oppure l’intervista a Mario Costantino: “Verso una climatizzazione flessibile”, in Modulo, luglio-agosto 1993, pagg.622-624.
5) Gli atrii, inoltre, fungono anche da efficaci “smorzatori” dei rumori.
6) Ecco così spiegato l’interesse che sulla stampa specializzata stanno riscuotendo articoli quali quelli di Donatella Ravizza, “Illuminare il connettivo” (Habitat Ufficio, n.81, agosto-settembre 1996), che con sempre maggior frequenza occupano le pagine delle riviste.

CAPITOLO 5: Caratteri costruttivi

L’analisi dei caratteri costruttivi dell’edilizia specialistica per il terziario contemporanea, rispetto al passato, non ha evidenziato tanto particolari differenze nei materiali impiegati (se non ovviamente per le specifiche soluzioni tecnologiche adottate, figlie delle diverse soglie temporali e dei differenti stadi di sviluppo), che in sostanza restano, riveduti e corretti, quelli di sempre – calcestruzzo armato, acciaio, laterizi, … – quanto piuttosto, per dirla alla Maretto, nella più generale concezione delle integrazioni aggregative tra elementi tecnologici e sistema strutturale (1).
Se gli anni ‘60 e ‘70 sono stati gli anni, a livello di dibattito teorico e di applicazioni, della prefabbricazione pesante e delle economie di scala, con gli anni ‘80 tale modello di crescita del settore entra definitivamente in crisi, per effetto della richiesta di qualità che sempre più caratterizza la domanda nei vari comparti.
Il processo produttivo dei componenti, pertanto, pur senza rinunciare alle prerogative della produzione industriale – grazie alla parallela informatizzazione e robotizzazione degli stabilimenti (macchine a controllo numerico) -, si orienta verso prodotti “su misura” altamente specializzati e di elevato livello prestazionale (2). Elementi tecnici, quindi, con valore di prototipi, appositamente studiati per specifiche occasioni di impiego, sì che, mentre in precedenza gli edifici per terziario sorgevano sovente quale adattamento del progetto alle possibilità offerte dalla produzione corrente, oggi, in cui (si parla sempre – ovviamente – a livello di esperienze di punta e di linee generali di tendenza) “corrente” è un termine non più spendibile per definire la flessibilità pressoché‚ universale della produzione industriale, è questa ad adeguarsi, di volta in volta, alle peculiari caratteristiche delle costruzioni da edificare e dei siti d’intervento (3).
Una seconda serie di considerazioni, che ci preme svolgere in queste note, è relativa al ruolo del “dato” costruttivo nei moderni palazzi per uffici.
Sino al comparire dei primi green building questo, infatti, si era venuto, per così dire, contraendo e limitando alla sola funzione portante, le altre (di chiusura, di distribuzione, di passaggio impianti, di definizione formale …) essendo state affidate a pannelli (curtain wall, setti divisori interni, pavimenti flottanti, …) e intercapedini attrezzate non appartenenti alla tradizione del mondo edile.
Un processo di esplosione della scatola muraria, sulle cui ragioni e sui cui effetti non riteniamo sia qui il caso di soffermarci, se non per osservare che, permanendo nell’ambito di una tale filosofia di progetto, ben difficilmente è possibile trovare una chiave di lettura, da parte del progettista, che non si limiti a dare del tipo strutturale un’interpretazione riduttivamente fondata solo su arbitrarie considerazioni formali e su questioni economiche.
Il recupero in corso dell’organicità del sistema “edificio”, il suo nuovamente essere concepito quale organismo complesso, che è poi il tratto distintivo di questa nostra età, determina un netto ripensamento di una simile disarticolazione funzionale e va nel senso opposto di riaggregare le prestazioni. Abbiamo, così, come nel caso degli esaminati Inland Revenue Headquarters, membrature portanti in laterizio che concorrono anche a definire le chiusure perimetrali verticali dell’edificio, danno un fondamentale apporto con la loro inerzia termica e con l’ombra da essi stessi proiettata sui fronti alla regolazione del clima interno, e giocano un ruolo di primo piano nella determinazione formale dei prospetti. Se a questo aggiungiamo che è pratica, ormai diffusa, negli interventi per il terziario più avanzati, realizzare partizioni orizzontali di interpiano con l’intradosso dal profilo voltato (ai fini di garantire una migliore diffusione della radiazione luminosa e di agevolare il ricircolo dell’aria) (4), si può ben dire che – in questo specifico comparto – il “pendolo” della storia stia muovendo da strutturazioni per lo più composite per giustapposizione, discontinue lineari aperte indifferenziate, quali erano quelle dei tanti parallelepipedi in acciaio e vetro di anni recenti, verso strutturazioni unificate per connessione o, anche, unificate per stratificazione (5).
Alla luce di tali evoluzioni è, quindi, facilmente comprensibile come, nella contemporanea edilizia specialistica per il terziario, i caratteri costruttivi siano tornati a diventare uno dei fondamentali parametri di analisi tipologica del costruito e di organizzazione dei nuovi progetti. Un dato, quest’ultimo, direttamente confermato dall’Ingegner Gabriele del Mese (chief-engineer di Ove Arup & Associates) in un ciclo di lezioni da lui tenuto presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (6): per Arup l’ossatura assolve l’importante compito di maglia logica ordinatrice dell’idea progettuale, rappresentando, oltre che un elemento di gerarchia, anche un decisivo fattore di forma. Non diversamente da quanto avveniva per l’architettura classica, infatti, anche in queste realizzazioni è possibile riconoscere ritmi (del tipo ABAB, oppure AABAAB.., ecc.) e proporzioni, intimamente connesse alle ragioni dell’architettura nella sua dimensione più nobile, di disciplina dell’organizzazione spaziale.
E anche un ulteriore interessante aspetto emerge chiaramente dall’esame degli ultimi progetti del famoso team di engineering inglese.
Sul piano della forma, nonostante l’elevatissimo livello delle soluzioni tecnologiche adottate, frutto di programmi di ricerca a lungo termine e di sperimentazioni ad hoc per i singoli e specifici casi, l’immagine dei palazzi per uffici di ultima generazione si discosta profondamente dall’ “esibizionismo” High Tech della precedente produzione, in favore di una più comunicativa maniera urbana.
Le ragioni di questo “mutamento di rotta” sono facilmente intuibili, alla luce di quanto siamo venuti affermando. Se, infatti, nei contenitori per terziario che hanno fatto il mercato sino agli inizi degli anni ‘90, il problema era essenzialmente un problema di frontiera fra ambiente esterno ed interno (che lì si era concentrato il dato strutturale per “svuotare” la superficie di piano della “macchina” ufficio, e lì si realizzava la barriera impermeabile dell’involucro), per cui questa era comunque, al di là di intenzioni pubblicitarie o meno, soggetta a un fenomeno di “sovraesposizione” tecnologica, oggi, che ai medesimi problemi si tende a dare una risposta “diluita”, per così dire, nel funzionamento a sistema dell’organismo edilizio nel suo complesso, la tecnologia torna a essere uno dei tanti fattori, sullo stesso piano degli altri, di caratterizzazione dei differenti tipi.
Si potrebbe, quindi, volendo sintetizzare i concetti ora espressi in uno slogan, dire: architetture, ad alta tecnologia, ma non per questo di “sola tecnologia” (7).

Note
1) In proposito, si veda Paolo Maretto, “Realtà naturale e realtà costruita”, Uniedit, Firenze, 1980, pag.107.
2) “Se nel passato gli approcci progettuali si muovevano alla ricerca di flessibilità puramente dimensionale di organizzazione degli spazi, oggi l’attenzione si rivolge in termini più estensivi verso una flessibilità di tipo prestazionale rispetto alla quale sistema impiantistico e sistema edilizio assumono importanza paritetica”.
(Sergio Croce, “Metabolizzare il progetto”, in Modulo, n.93, 1993, numero monografico sugli Edifici per Uffici, pagg.616-618)
3) Medesimi discorsi valgono anche per le tecnologie industrializzate di cantiere (quali le cassaforme per i getti del calcestruzzo), configurando quindi una temperie culturale che in questi ultimi decenni ha ricompreso globalmente l’intero processo edilizio. Gli ultimi progetti di edifici per terziario firmati Ove Arup, per esempio, portano in vista le orditure portanti, richiedendo un disegno “ad hoc”, per ogni singolo frangente, dei casseri di getto in acciaio.
4) Una simile soluzione costruttiva compare, oltre che negli Inland Revenue Offices di Michael Hopkins, anche nei progetti per Bridewell e Plantation House (due complessi per terziario nella City londinese) di Ove Arup & Associates.
5) Per le relative definizioni si veda Paolo Maretto, op.cit., pagg.107-108.
6) “Progettazione e gestione del progetto di edifici ad alta complessità”, ciclo di sei incontri organizzato dall’Istituto Universitario di Venezia, Venezia, 22-23 aprile, 6-7-27-28 maggio 1996.
7) Su questi stessi temi interessanti sono l’articolo di Cristina Donati, “Da -Architettura come fantascienza- ad -High-Tech come tabù -”, in Controspazio, n.3, 1996, pagg.4-12, e quello di Robert Emmerson, “La filosofia di Ove Arup & Partners”, in Casabella, gennaio-febbraio 1988, n.542-543, pagg.50-52.
Nel primo dei due articoli citati si afferma tra l’altro, parlando dell’opera di Michael Hopkins “Così l’high-tech supera la soglia dell’avanguardia, della svolta radicale ed intraprende la fase dell’aggiornamento della memoria. Ecco perché‚ l’espressione high-tech descrive una realtà oramai superata dall’architettura d’autore dove la tecnologia o meglio l’innovazione tecnologica è strumento di aggiornamento e non di rottura con il passato”.
(Cristina Donati, op.cit., pag.10).

CAPITOLO 6: Caratteri costitutivi dell’involucro

La prima considerazione che si impone sui caratteri costitutivi dell’involucro, in queste note conclusive, è proprio relativa alla correttezza o meno dell’impiego del termine “involucro” per definire la classe di unità tecnologiche “chiusure perimetrali verticali”.
Nell’accezione corrente della lingua italiana, infatti, tale termine fa riferimento a un qualcosa che avvolge un qualcos’altro (“Quanto costituisce un conveniente o funzionale elemento di copertura e protezione attorno ad una superficie”, così il Devoto-Oli, “Vocabolario illustrato della lingua italiana”, vedi bibliografia), un soggetto, dunque, ben distinto dall’oggetto che subisce l’azione dell’avvolgere.
I tanti edifici per terziario direzionale-amministrativo shell and core (“pelle e ossa”) degli anni ‘60/’70 e anche ‘80, riconducibili al mondo formale dell’International Style (tutti vetri a specchio) oppure del Post Modern (con policromi rivestimenti in pietra), presentavano effettivamente, come riteniamo sia emerso con chiarezza dalle nostre analisi, una netta distinzione fra chiusure perimetrali verticali e altre classi di unità tecnologiche componenti l’edificio. Quest’ultimo, cioè, era stato per così dire dissezionato nelle sue varie parti costitutive (involucro, per l’appunto, ossatura, setti di partizione interna orizzontali e verticali, ecc.), mentre agli impianti era stato affidato il compito di garantire il funzionamento a sistema dell’insieme, supplendo alle evidenti carenze di organicità che una tale spinta specializzazione funzionale inevitabilmente comportava.
E’ questo il contesto culturale – la soglia tecnologica -, in cui si diffonde in area anglosassone, la più spregiudicatamente avanzata su questa linea di ricerca architettonica (ma, in molti casi, più che da urgenze della forma, la nuova tendenza era dettata da ragioni economiche legate agli interessi dei grandi gruppi immobiliari), l’uso del termine “envelope”-“involucro”: non una membrana, quindi, ma una netta barriera fra ambiente interno e contesto esterno assolutamente riconoscibile nella sua individualità, gli unici punti di contatto con il resto della costruzione essendo i giunti di dilatazione, a ben vedere anch’essi appositamente concepiti per assicurare una totale indipendenza e possibilità di movimento relativo fra le parti.
Ma è ancora appropriato, oggi, parlare di involucro per indicare sinteticamente la classe di unità tecnologiche chiusure dei moderni green buildings per il terziario, di complessi, cioè, che fondano la loro concezione progettuale sulla nozione di edificio quale organismo edilizio, in cui ogni parte rimanda al tutto? E ancora, è corretto l’uso dello stesso termine “chiusure” per definire un subsistema tecnologico la cui funzione primaria non appare più quella del “separare”, quanto quella del “porre in relazione selettivamente” (1)?
Forse lo è per la grande massa della produzione corrente che, a dispetto della conversione a una più attenta considerazione dei fattori microclimatici e al contenimento dei consumi energetici derivanti dal funzionamento degli impianti, non pare aver ancora rinunciato a logiche e metodi consolidati.
Per le realizzazioni sperimentali di punta, più avanzate sulla strada di un integrale ritorno della costruzione a modelli di controllo ambientale di tipo selettivo e conservativo, invece, sembra più idoneo ricorrere alla nozione di “apertura” (2). Essa, infatti, da un lato rinvia a una primaria funzione di regolazione del passaggio degli apporti energetici, informativi e percettivi fra interno ed esterno, dall’altro non si pone quale unico elemento di frontiera, ma svolge piuttosto un’azione concorsuale con il più complessivo sistema edilizio, di fatto implicando, per il suo stesso sussistere, di un negativo rispetto al quale svolgere l’azione dell’aprire.
Proprio, poi, per compiere appieno la loro funzione di selezione, le aperture stanno subendo due fondamentali trasformazioni. La prima di natura macroscopica, legata al loro divenire esse stesse un sistema complesso. Alla semplice lastra vetrata si è, infatti, venuto sostituendo un’insieme strettamente correlato di dispositivi di schermatura e di oscuramento della radiazione solare (frangisole, tende alla veneziana,…), di soluzioni di coibentazione (intercapedini con o senza gas), di mezzi di diffusione della luce naturale (light shelves e altri schermi riflettenti),…; una complessità che richiede un’attenta valutazione degli effetti desiderati e il concorso di esperti fisico-tecnici per la messa a punto più opportuna del sistema (3). Così, per esempio, per i citati Inland Revenue Offices di Michael Hopkins & Partners, le particolari soluzioni di apertura adottate sono state il risultato di un apposito studio di ricerca condotto dalla società Conphoebus di Catania, specializzata sulle questioni delle energie rinnovabili e del risparmio energetico.
La seconda, invece, di natura microscopica, che coinvolge la costituzione molecolare dei materiali impiegati. Tipico il caso dei sistemi di vetrazione, le cui tecnologie di lavorazione attengono ormai il campo della fisica atomica. Basti pensare, a titolo di esempio, ai cristalli bassoemissivi (caratterizzati da elevati valori di “opacità” all’irraggiamento termico dei corpi non incandescenti, cioè all’infrarosso lungo), oggi prodotti o con tecniche di deposizione a freddo, quali il magnetron sputtering, o con l’evaporazione mediante electron beam: processi entrambi fondati sulla creazione di depositi metallici sulle lastre di vetro per mezzo di bombardamento elettronico di una lamina metallica (4). Ma discorso analogo potrebbe essere fatto per tutte le altre tipologie di vetri innovative, che l’industria del settore sta sperimentando con più o meno successo a livello di applicazioni concrete (vetri polarizzati, elettrodinamici a cristalli liquidi, termodinamici, fotocromatici, elettrocromici, termocromici, fotovoltaici) e che tendono a configurare il vetro quale materiale “intelligente”, capace cioè di variare le sue prestazioni autonomamente in funzione delle sollecitazioni provenienti dall’ambiente circostante.
Due livelli di innovazione, quelli macroscopico e microscopico, ora descritti, che sembrano, tuttavia, ubbidire a un’unica logica tendenziale, quella cioè della ricerca della soluzione ad hoc, studiata appositamente per lo specifico problema concreto: “Negli ultimi anni si sono sviluppate tecnologie in grado di offrire prestazioni speciali per le più diverse applicazioni. Spesso la creazione del materiale è nata in conseguenza della necessità di risolvere un’applicazione particolare e, in questi casi, è stata la funzione ricercata a produrre un materiale o un progetto in grado di soddisfarla” (5).
Ne escono, in altre parole, confermate, anche per questo particolare aspetto, la centralità del progetto quale fattore determinante della qualità edilizia e la necessità di stabilire un dialogo proficuo, senza subirne i condizionamenti, con l’industria.

Note
1) “Chiusura: cessazione o interruzione del passaggio, della comunicazione o di qualsiasi attività, dovuta a ragioni di spazio o di tempo” (definizione del “Vocabolario illustrato della lingua italiana” di G.Devoto e G.C.Oli – Vedi riferimenti in bibliografia).
Decisamente esplicita anche la definizione fornita dalla norma Uni 8290: “Insieme delle unità tecnologiche e degli elementi tecnici del sistema edilizio aventi funzione di separare e di conformare gli spazi interni del sistema edilizio stesso rispetto l’esterno”.
2) “Apertura: l’operazione di praticare un passaggio o di stabilire una comunicazione dall’interno verso l’esterno (o anche, più genericamente, da un ambito spaziale a un altro) e viceversa (definizione del “Vocabolario illustrato della lingua italiana” di G.Devoto e G.C.Oli – Vedi riferimenti in bibliografia).
3) “(…) E’ opportuno osservare come, anche per episodi architettonici meno importanti, oggi l’architetto debba confrontarsi con una tecnologia e con tecniche sempre più complesse. Ciò richiede approcci progettuali più evoluti, che mettano in primo piano, accanto alla cultura umanistica, quella tecnologica. Ciò richiede la presenza della figura professionale dell’ingegnere tecnologo e ambientale, che accanto all’architetto, allo strutturista, all’impiantista, contribuisca allo sviluppo di una qualità edilizia coerente con le potenzialità offerte dall’industria e dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche”. (Sergio Croce, “Sistemi di chiusura vetrati: l’innovazione di progetto”, in AA.VV., “Facciate continue – Tecnologie, prodotti, applicazioni innovative”, Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano, 18 dicembre, 1995).
Significativa delle proficue integrazioni che si possono stabilire fra mondo della produzione edilizia e ricerca scientifica, per lo specifico campo delle aperture, è l’attività trentennale dell’Ift (Institut für Fenstertechnik) di Rosenheim, su cui un interessante reportage è contenuto in “Nuova Finestra”, n.9, settembre 1996, pagg.125-145.
4) Per un’accurata descrizione di entrambi i due procedimenti, si veda: Claudio Conio, “La tecnologia della trasparenza”, Tecnomedia, Milano, 1995, pagg.106-109.
5) Claudio Conio, op.cit., pag.163. Si vedano anche gli scritti di Enzo Manzini, che su questi temi ha speso buona parte della sua attività di ricerca, inseriti in bibliografia.

CAPITOLO 7: Modelli di controllo ambientale

Nel brief, il programma dell’intervento stilato dalla committenza sulla base delle sue esigenze, una voce ormai costantemente ricorrente è quella del contenimento dei consumi energetici.
Non si tratta solo di tagliare i costi di gestione, che nel più complessivo life cycle cost di un edificio per terziario direzionale amministrativo hanno assunto un ruolo predominante, per effetto del moltiplicarsi delle dotazioni impiantistiche, ma anche e soprattutto di evitare alti livelli di inquinamento atmosferico, in ragione delle emissioni di anidride carbonica (CO2) conseguenti alla produzione delle varie forme di energia (luminosa, termica, motrice,…).
Senza poi contare che, come abbiamo già ricordato, all’origine dei cali di produttività e delle sindromi patologiche (sick building syndrome), che colpiscono con sempre maggior frequenza gli impiegati (cefalee, disturbi respiratori, stati ansiosi e depressivi, manifestazioni allergiche, …), vi è, in buona misura, l’iper-artificializzazione dell’ambiente ufficio. Per anni, infatti, la parola d’ordine nella realizzazione dei grandi contenitori per il terziario è stata – annullare gli effetti del clima esterno -, trasformando, di fatto, l’involucro in una barriera impenetrabile.
Nel complesso, dunque, una serie di buone ragioni che hanno suggerito a tecnici e progettisti di rivedere le più generali filosofie d’intervento in termini di modelli di controllo ambientale.
Si assiste così, a scala mondiale, a una fase di transizione da soluzioni rigenerative (ovvero fondate sul ricorso a consumi energetici per ripristinare in continuo ottimali condizioni di habitat) a soluzioni selettivo-conservative, giocate, cioè, sulla capacità dell’organismo edilizio di autoregolare il microclima interno, filtrando gli apporti esterni, in virtù delle proprie caratteristiche tipologiche (orientamento, caratteri distributivi, caratteri costruttivi, caratteri costitutivi dell’involucro, …).
Da qui il grande successo registrato in questi ultimi anni dalle ricerche attente a valutare l’ecocompatibilità dei manufatti edilizi e il recupero di saperi della tradizioni costruttive locali che, in via spontanea, avevano già fornito in passato esaurienti risposte ai medesimi problemi della società contemporanea.
Vediamo, allora, di descrivere, in sintesi, gli effetti dei due fondamentali contributi ambientali naturali che, se sapientemente sfruttati, possono permettere di giungere a un radicale azzeramento delle componenti impiantistiche nei moderni edifici per uffici.
– Radiazione solare: il sole è una fonte pressoché‚ inesauribile (perlomeno se comparato alla scala temporale della vita umana) di luce e calore.
Per quanto concerne l’illuminazione naturale, tecnologie (TIM – Transparent Insulated Materials, lastre con strati di aerogel di silicio,…), soluzioni tecniche (light-shelves, schermi riflettenti,…) e altri caratteri tipologici (profilo voltato dei soffitti, assetti distributivi cellulari a profondità contenuta,…) innovativi (1)concorrono ad accrescerne notevolmente il grado di re

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