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Dal progetto al processo per ricostruire Gaza

La ricostruzione di Gaza deve partire dal basso. E integrare il sapere antico di una civiltà millenaria con le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale. L’attenzione per l’ascolto delle comunità locali palestinesi, brutalmente aggredite dall’occupazione israeliana e allontanate dalle loro terre, case e città rase al suolo, è fra i trait d’union dei diversi progetti di ricerca in campo. Che, da anni e anche prima del 7 ottobre 2023, tracciano gli itinerari per un futuro possibile, dove l’architettura e la pianificazione territoriale diventano strumenti per costruire un percorso di pacificazione autentica.

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Rendering del progetto dello Iuav di Venezia per la ricostruzione di Gaza
Rendering del progetto dello Iuav di Venezia per la ricostruzione di Gaza

Non una progettazione rigida, ma un processo di ricostruzione calibrato passo per passo sul territorio e le esigenze crescenti della popolazione dal conflitto al post conflitto, secondo una visione che guarda all’ascolto delle comunità locali, all’economia circolare e alla sostenibilità.

Dove l’ottimizzazione di obiettivi e risorse disponibili avviene in tempo reale sia durante che dopo il conflitto, sfruttando la potenza di elaborazione e calcolo degli algoritmi e delle tecnologie digitali data driven. Con questo approccio, il mondo dell’università e dell’architettura si interroga e lavora, da anni, su proposte operative per la ricostruzione della Striscia di Gaza, devastata dall’assedio e dalla distruzione da parte dell’esercito israeliano. Il dialogo con istituzioni, associazioni e università locali è fra gli elementi portanti che contraddistinguono i progetti in corso.

Rendering del progetto dello Iuav di Venezia per la ricostruzione di Gaza

La ricostruzione a Gaza resta un motivo forte di riflessione etica per il mondo dell’architettura e della ricerca, come dimostrano la promozione di call internazionali aperte a tutti i professionisti attivi nel mondo del progetto e della pianificazione territoriale per unire e condividere saperi ed esperienze.

Intanto, a Gaza si continua a morire. Di assedio ininterrotto da parte delle forze militari del governo israeliano che irride al debole cessate il fuoco. Di fame, di sete, della mancanza di cure. Di freddo, nelle tende dei campi profughi immerse nell’acqua e nel fango delle alluvioni. Di indifferenza colpevole e strumentale, politica e geopolitica, che una volta archiviata l’eco mediatica delle scorse settimane, legata in primis all’iniziativa della Global Sumud Flotiglia, ha messo in sordina la mattanza ancora in corso e, insieme, la forte azione popolare sollevata contro la barbarie.

Macerie dalla rimozione al riciclo

La ricostruzione potrebbe durare decenni; ma, prima, viene lo sgombero delle macerie. A fine novembre, secondo UNDP (United Nations Development Programme, Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) a Gaza è stato distrutto oltre l’80% degli edifici, dalle abitazioni private a scuole e ospedali, mentre secondo recenti immagini satellitari, l’ONU ha stimato che la distruzione abbia prodotto nella Striscia di Gaza macerie pari a 61 milioni di tonnellate

Rimuovere macerie e detriti da strade e territorio vuol dire liberare percorsi di accesso senza ostacoli ai partner umanitari, ripristinare mezzi di sussistenza, mercati locali, riaprire ospedali e scuole. Un’esperienza che l’agenzia ONU ha conseguito sul campo a partire dai precedenti conflitti a Gaza nel 2009, 2014 e 2021 quando sono state rimosse oltre 2,8 milioni di tonnellate di detriti. Dallo scorso gennaio, a guerra in corso, i team dell’UNDP hanno rimosso oltre 120mila tonnellate di macerie. A un solo mese dal cessate il fuoco, sono state oltre 50mila le tonnellate rimosse.

Il processo di rimozione delle macerie dagli spazi urbani è reso urgente anche, e soprattutto, da ragioni di salvaguardia dai rischi per la salute e l’ambiente, e umanitarie: dalla presenza di esplosivi, amianto, sottoprodotti industriali e rifiuti sanitari, al ritrovamento dei resti di un numero elevato di persone sepolte. L’UNDP adotta un approccio a ciclo completo per la rimozione delle macerie che comprende le fasi di raccolta, frantumazione e riciclaggio, con il riutilizzo dei detriti stessi come risorsa per la ricostruzione. Le macerie frantumate sono messe a disposizione di comunità, individui e aziende in tutta Gaza e utilizzate per livellare le strade e le aree destinate a rifugi temporanei e risposta a esigenze immediate.

Secondo le stime ONU a settembre 2024, per la rimozione e il riutilizzo delle macerie potrebbero essere necessari fino a 20 anni per un costo che arriva a 909 milioni di dollari; un periodo che potrebbe arrivare a sette anni solo disponendo di accesso senza ostacoli alle aree prioritarie, permessi per macchinari pesanti e attrezzature specializzate, rifornimento costante di carburante, e, soprattutto, un ambiente operativo stabile.

Ateneo in prima linea

L’Università Iuav di Venezia mette in campo per Gaza la propria esperienza nel campo della progettazione e ricostruzione in aree di crisi, con la firma, il 3 ottobre 2023, di un protocollo di intesa con UNDP Regional Bureau for Arab States.

Rendering del progetto dello Iuav di Venezia per la ricostruzione di Gaza

L’obiettivo è lavorare su un processo di adattamento e ricerca costante delle modalità di progettazione sul campo, che integra le competenze dell’architettura con gli strumenti messi a disposizione dall’analisi dei dati.

Rendering del progetto dello Iuav di Venezia per la ricostruzione di Gaza

Un progetto adattivo aperto e basato sul dialogo con istituzioni e comunità locali, con UNDP come mediatore e facilitatore; capace di seguire passo per passo, in tempo reale, l’evoluzione di una situazione che rimane fortemente critica per la popolazione palestinese sotto attacco.

Per la Striscia di Gaza, Iuav lavora tramite il gruppo di ricerca Urbicide Task Force – già attivo in altre aree di crisi come Siria, Iraq e Ucraina – su una gamma di temi che va dalla pianificazione territoriale al disegno urbano sostenibile, dalla progettazione strategica alla ricerca di soluzioni tecnologiche per il cambiamento climatico, oltre che dalla conservazione del patrimonio materiale e immateriale al progetto di architettura vero e proprio, in collaborazione con i colleghi gazawi delle università palestinesi attualmente attivi a Ramallah, in Cisgiordania. 

Dalla mappatura al neighborhood

La gestione quotidiana dell’emergenza abitativa e ambientale in un contesto di guerra è il primo passaggio ineludibile. Il modello urbano su cui lavora Iuav si basa su una costellazione organica di cellule urbane autonome basate su interventi delocalizzati e diffusi che lavorano contemporaneamente sui diversi ambiti come gli alloggi e la disponibilità di risorse idriche ed energetiche, ottimizzando tempi, costi, infrastrutture e forza lavoro; minimizzando, nel contempo, il consumo di suolo.

Il punto di partenza è la mappatura dei luoghi realizzata dai ricercatori Iuav; a partire dalla conoscenza accurata del territorio e del contesto ambientale, un algoritmo – elaborato ad hoc in casa dall’ateneo veneziano – supporta il processo decisionale elaborando dati e informazioni raccolte permettendo di individuare, caso per caso e in tempo reale, le priorità di intervento sul territorio.

A guidare il team è Jacopo Galli, architetto, docente di Composizione architettonica e responsabile scientifico del progetto UNDP e Università Iuav.

Quello che è successo a Gaza il 7 ottobre 2023

ha portato l’agenzia ONU a invitare Iuav allo sviluppo di ipotesi di intervento. In due anni ci siamo resi conto di come, a fronte di ipotesi di allocazione di qualsiasi elemento nel contesto, l’evoluzione estremamente veloce della situazione politica vanificasse tutto. Per affrontare la situazione stiamo quindi lavorando su processi modificabili in maniera continuativa, grazie a sistemi data driven con un algoritmo dedicato che consentono una lettura in tempo reale dei dati e delle informazioni provenienti dal territorio. L’utilizzo di questa modalità di intervento permette di capire prima dove posizionare gli elementi di emergenza e poi passare a veri e propri insediamenti più strutturati. L’ipotesi è che, in futuro, l’algoritmo possa essere la base per lo sviluppo di ipotesi di ricostruzione secondo un processo decisionale basato sui dati reali.

Professor Galli, è possibile intravedere oggi gli step di attuazione?

Non è facile perché il lavoro coinvolge diverse agenzie delle Nazioni Unite totalmente divise fra loro per le diverse fasi di emergenza, recovery e, poi, ricostruzione. Se, come sosteniamo, le decisioni prese nelle fasi iniziali influenzano quelle successive, allora costruire le condizioni di base a partire da uno strumento basato su algoritmo permette di non dover ricominciare da zero ogni volta ma tenere traccia delle operazioni.

Che tipo di informazioni sono raccolte?

Ad alimentare il sistema di localizzazione data driven sono i dati provenienti da UNDP e dai ministeri insediati presso l’Autorità nazionale palestinese. L’obiettivo è realizzare una base Gis che ne consente la lettura, e quindi l’utilizzo e applicazione, in tempo reale. Parliamo principalmente di dati su distruzioni e macerie, accesso alle risorse come acqua ed energia, ma anche informazioni di tipo catastale sui proprietari, così come le informazioni relative a quante persone abitavano prima della guerra in determinati luoghi.

L’algoritmo permette di “pesare” ognuno di questi dati a fronte delle richieste dei vari livelli amministrativi o di UNDP.

Per esempio, 70mila tende attualmente ferme a Kerem Shalom, territorio di valico esterno e a ridosso della Striscia, dove potrebbero essere collocate nel momento in cui potessero entrare? L’algoritmo permette, in tempo reale e in base a sistemi di punteggio, di individuare quali aree sono da preferirsi, quante tende è possibile collocare e se queste sono dotate di allacciamenti, sono vicine alle scuole, sono in prossimità dei luoghi di residenza prima del conflitto, e così via. L’algoritmo individua le aree maggiormente adatte secondo gli obiettivi e fornisce i risultati alle agenzie dell’Onu, che controllano sul campo la fattibilità delle ipotesi. Malgrado sia ancora in uno stato embrionale, questo sistema è già attivo e utilizzato.

Ci sono strumenti che l’architettura offre per rispondere a questi contesti specifici di ricostruzione?

Gli strumenti tradizionali del progetto sono totalmente inadatti. Occorre invece parlare di processo e di controllo continuo di come questo si evolve. Con i colleghi palestinesi stiamo lavorando su una scala di intervento basata su una unità minima di vicinato o neighborhood, definita a partire dall’osservazione e valutazione dei problemi e delle risorse presenti in loco per capire, per esempio, quali interventi possono partire prima in una scala di priorità.

Si parla di un processo di Transitional Neighborhood, inteso come un progressivo indurimento del tessuto urbano che supera l’insediamento emergenziale delle tende. In questo senso, è importante che per la realizzazione del sistema ci siano un dialogo e una corrispondenza locale nelle persone che risiederanno in questo neighborhood, senza la partecipazione degli abitanti non sarebbe possibile realizzarlo. Per promuovere il confronto con gli abitanti ci basiamo attualmente in larga misura sulle informazioni riferite dai colleghi di UNDP, presenti e residenti nella Striscia di Gaza, con cui lavoriamo giornalmente.

Partendo da questo lavoro in aree di conflitto, c’è qualcosa che anche la didattica può utilizzare per la formazione dei futuri architetti?

Assolutamente sì. Le tematiche sono di una complessità tale per cui il contributo che uno studente può portare è molto minimo e non ha nessuna pretesa di credibilità, ma credo sia importante che i giovani e futuri architetti mettano la testa su argomenti come questi. L’architetto non è solo colui che fa piante prospetti e sezioni ma può ragionare su argomenti complessi e difficili dei quali è assolutamente importante porsi il problema.

Architetti in campo

Yara Sharif, Nasser Golzari e Murray Fraser sono i co-fondatori del Palestine Regeneration Team (PART), gruppo di ricerca con sede a Londra che, attraverso il progetto, ha l’obiettivo di definire possibilità spaziali creative e reattive per sanare le fratture causate dall’occupazione israeliana in Palestina. Impegnato nel dialogo e condivisione con le comunità locali e le ong attive sul territorio palestinese, il PART lavora sulle strategie di auto-aiuto per l’edilizia abitativa, i piani di rivitalizzazione e i prototipi di abitazioni a vocazione ecologica e sostenibile che si basano sul recupero e valorizzazione delle pratiche culturali diffuse. Un impegno che, dopo il 7 ottobre 2023, si è concretizzato in nuove azioni per stimolare una presa di coscienza da parte dei professionisti della progettazione.

A novembre 2023, la decisione di varare il collettivo internazionale Architects for Gaza (AFG) sposta in alto l’asticella verso una presa di posizione e di responsabilità fattiva contro il genocidio e lo spaziocidio in atto. Fondato da Sharif e Golzari, il collettivo un lavora a stretto contatto con il comune della città di Gaza e con partner e istituzioni locali, partendo dal rifiuto di una ricostruzione a-storica ex novo per guardare alla preservazione dell’identità culturale, della tradizione e della memoria locale attraverso soluzioni architettoniche e urbanistiche innovative.

Con la call for action “The Gaza Global University”, AFG ha chiamato a raccolta nel dicembre 2023 oltre 800 rappresentanti del mondo accademico e professionale di architettura, urbanistica e progettazione dello spazio da 60 Paesi, impegnati come volontari a sostegno degli istituti di istruzione superiore e degli studenti di Gaza per la condivisione di saperi, conoscenze ed esperienze. Un impegno etico, prima che professionale, ribadito a giugno 2025 con la lettera aperta indirizzata al Riba (Royal Institut of British Architects) che chiede esplicitamente la condanna, da parte del mondo dell’architettura e del progetto, dell’assedio e distruzione di Gaza.

Dalla distruzione all’autocostruzione

I palestinesi hanno il diritto di ricostruire le proprie case, scuole, comunità di vicinato e ospedali; i professionisti del progetto portano la propria esperienza e professionalità sul campo. Lavorando in collaborazione con partner locali e istituzioni, AFG ha sviluppato approcci progettuali basati sull’autocostruzione e la sperimentazione che utilizzano le macerie, testimonianza di vita quotidiana e memoria, come materiale da costruzione. Fra i progetti di AFG, anche la creazione di un “Atlante dei materiali disponibili”, che raccoglie e valorizza la ricerca e l’esperienza delle famiglie di Gaza nelle pratiche di recupero e riutilizzo di macerie e materiali dismessi per la ricostruzione.

Il contributo di ricerca di AFG è arrivato anche all’ultima Biennale di Venezia con l’installazione “Objects of Repair” nel cuore del padiglione britannico; partendo da una riflessione sullo storico sfruttamento coloniale – prima con il mandato britannico, poi con l’occupazione israeliana – del territorio palestinese, l’opera ha messo in luce come i materiali recuperati dalle rovine di Gaza, argilla e calcestruzzo frantumato, diventino l’emblema e il punto di partenza per un’azione architettonica di cambiamento e di rinascita, a partire dalla creazione di elementi architettonici per un rivestimento esterno e uno strato isolante.

Una fenice per rinascere

La ricostruzione, a Gaza, non è solo un recupero tecnico ma un processo politico, culturale ed esistenziale, basato su una metodologia che rifiuta piani regolatori imposti o strumenti rigidi “dall’alto”; guarda, invece, alla radice dell’esperienza vissuta, alla memoria e alle competenze dei palestinesi, attivi in tutte le aree geografiche globali, in una visione (e azione) condivisa e partecipata. L’iniziativa Gaza Phoenix è guidata da un team volontario e multidisciplinare di professionisti e accademici palestinesi provenienti da Gaza, dalla Cisgiordania e dalla diaspora, in coordinamento con le amministrazioni e le comunità locali. Ma è anche una piattaforma di ricerca e azione aperta alla collaborazione e allo scambio di esperienze con enti, istituzioni e atenei internazionali; al progetto ha aderito, fra gli altri, il Politecnico di Bari con il sostegno della Regione Puglia.

Il Phoenix Gaza Framework si presenta come roadmap di ricostruzione interdisciplinare che integra la risposta alle emergenze con una pianificazione urbana a lungo termine, radicata nella storia, nell’identità e nei bisogni della comunità di Gaza. La metodologia Gaza Phoenix si sviluppa su un pacchetto introduttivo che definisce il team, i valori e la struttura, la roadmap per la ricostruzione di Gaza, che rende operativa la ricostruzione in tempi e scale diverse, e gli allegati che forniscono strumenti dettagliati, mappature e dati a supporto dell’implementazione.

La progettazione è basata sui dati provenienti dal contesto in tempo reale, grazie a sistemi GIS e mappature remote che consentono l’analisi dei danni, e su indicatori socio-spaziali. La logica temporale è flessibile e graduale. Secondo la road map, la strategia di Gaza Phoenix si basa su tre fasi distinte di intervento, ciascuna delle quali include diversi step relativi a edilizia abitativa, assistenza sanitaria, trasporti, economia, istruzione, produzione di energia, gestione dei rifiuti, infrastrutture idriche, trattamento delle acque reflue, sgombero delle macerie, servizi comunali e governativi: Breve termine (emergenza e backup prima del cessate il fuoco); Medio termine (stabilizzazione e ripristino della normale vita quotidiana); Lungo termine (ricostruzione e sviluppo dopo il cessate il fuoco).

Dalle mappe al masterplan

Il masterplan del progetto Gaza Phoenix, sviluppato dallo studio Dar Al-Omran (DAO) di consulenza multidisciplinare per città, edifici e infrastrutture, è concepito per favorire sia la lettura completa della strategia di ricostruzione, sia quella settoriale (per esempio in materia di acqua, edilizia o patrimonio) per calibrare gli interventi rilevanti fase per fase, con una matrice di navigazione che mappa le intersezioni tra fasi e settori per facilitare il processo decisionale. L’approccio coordina gli interventi su quattro scale spaziali dalla macro alla micro scala, la Scala regionale (1:25.000 – 1:100.000, Paesaggio, agricoltura, grandi infrastrutture), la Scala urbana (1:1.000 – 1:25.000, Connettività e zonizzazione a livello cittadino), la Scala di quartiere (1:250 – 1:1.000, Gruppi residenziali, scuole, cliniche, mercati) e la Scala architettonica (1:50 – 1:250, Dettagli specifici del sito come cortili, strade e arredo pubblico). Il filo conduttore è basato sul recupero della qualità della vita e su sostenibilità ed economia circolare, con elementi chiave come verde, “città 15 minuti”, promozione della mobilità pedonale e ciclabile, resilienza, orticoltura urbana, energie rinnovabili, creazione di una rete di rifugi comunitari, ottimizzazione e bilanciamento fra abitazioni, tessuto edificato e spazi aperti.

Il masterplan non è concepito come uno strumento rigido ma una piattaforma che interagisce con la proprietà locale, consente il feedback e l’evoluzione continua, funziona da piattaforma di negoziazione tra i diversi attori (stato, comune, comunità), e allinea gli aiuti a breve termine con un’urbanistica emancipativa a lungo termine.

Sostenibilità e resilienza

Il progetto della Striscia di Gaza resiliente e autosufficiente parte dal sistema integrato di spine Blue&Green su cui è strutturato il Phoenix Gaza Framework. La spina blu connette l’affaccio al mare della costa con il territorio entroterra e integra le diverse vocazioni dell’economia del mare, turismo, patrimonio storico, ricerca e ambito ricreativo, con attenzione all’impatto ambientale e alla gestione efficace di infrastrutture, mobilità e gestione delle acque. La spina verde lavora sulla resilienza climatica, modernità e sicurezza alimentare e comprende le aree rurali che si estendono tra la striscia intermedia, luogo di ricostruzione e densificazione edilizia, e i confini esterni della striscia di Gaza, a bassa densità di edificazione e in equilibrio con il territorio a vocazione agricola. Il Wadi Gaza Corridor ha, infine, il ruolo peculiare di connettore trasversale verde fra la costa, la fascia di entroterra e il territorio intermedio urbanizzato.

Dalla distruzione al resort

 
Come si dice, tutto dipende dal punto di vista. Trasformare Gaza in un resort di lusso, “ripulito” dalla presenza, storia e memoria palestinese, come una tabula rasa. È un progetto di affarismo immobiliare che, nel silenzio, scompare e riemerge costantemente come un fiume carsico. Ma esiste e – in una visione distopica – procede di pari passo con il genocidio in corso ammantandosi di un’illusoria aura pacificatrice.
 
Come ha riferito il Wall Street Journal nei giorni scorsi, Jared Kushner, genero di Donald Trump e negoziatore dell’accordo di pace in Palestina, e Steve Witkoff, immobiliarista newyorkese, inviato della Casa Bianca per i negoziati a Gaza, hanno presentato ai possibili Paesi donatori (Paesi del Golfo, Turchia ed Egitto) il progetto Sunrise per la ricostruzione della Striscia, i cui contenuti riprendono l’analoga proposta trumpiana della Riviera del Medio Oriente.
 
Se, con un apparente sussulto di empatia umana, il progetto – messo a punto da una cordata di investitori americani – prendesse avvio dalla prima ricostruzione di alloggi provvisori per i Gazawi, l’obiettivo è realizzare un resort di lusso high tech. Riassunto in una presentazione PowerPoint di 32 pagine, definito “sensibile ma non classificato”, prevede un investimento da 112,1 miliardi di dollari per i primi 10 anni; gli Stati Uniti fornirebbero un'”ancora” da 60 miliardi di dollari, mentre Gaza sarebbe in grado di autofinanziare le opere grazie all’evoluzione delle diverse fasi di sviluppo.
Entro un decennio, il 70% della Striscia di Gaza dovrà creare reddito, con una redditività complessiva a lungo termine stimata di 55 miliardi di dollari.
Tutte le fasi di intervento sono già tracciate: sgombero delle macerie, sfinimento, distruzione dei tunnel realizzati da Hamas, fornitura di sistemazioni provvisorie e ospedali per la popolazione di Gaza; per passare ad abitazioni definitive, infrastrutture, edifici pubblici e l’uscita dei Gazawi dallo stato di povertà. Poi, si arriverebbe al dunque, con l’innalzamento degli edifici del resort e la dotazione di una rete ferroviaria high tech.
Sempre citando il Wall Street Journal, i lavori durerebbero 20 anni, partendo dal Sud della Striscia a Rafah e Khan Younis per proseguire poi con il centro della regione fino a Gaza City; Nuova Rafah diventerà la sede governativa della Striscia. Sono previste oltre 100mila abitazioni, 200 scuole e 75 centri medici, oltre a 180 moschee e centri culturali. Il destino di Gaza, città martire, è diventare una smart city.
 
Un progetto che non sembra tenere molto in considerazione l’ascolto e il rispetto della popolazione palestinese, e ha una precondizione ineludibile: la completa demilitarizzazione di Hamas. 

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