Campi elettromagnetici: i possibili danni causati

L’utilizzo di energia elettrica in ambito residenziale o professionale come causa di patologie sulla popolazione esposta è oggetto di studi scientifici. I Possibili effetti patogeni dei campi elettromagnetici.Campi elettromagnetici: i possibili danni causatiNegli ultimi anni è cresciuta la preoccupazione circa i possibili effetti patogeni (in particolar modo oncogeni) ai danni della popolazione dei campi elettromagnetici. Si tratta di campi caratterizzati da frequenza estremamente bassa (50-60Hz) tipica dei processi di generazione, trasmissione , distribuzione ed utilizzo dell’energia elettrica in ambito professionale.

Studi epidemiologici sui campi elettromagnetici

Studi epidemiologici di rigore scientifico hanno indagato l’esistenza di una eventuale correlazione tra esposizione a campi elettromagnetici e insorgenza di manifestazioni patologiche di rilevante entità, soprattutto leucemia, per la popolazione infantile. Sono stati sottoposti ad analisi i casi in cui tale possibile legame appariva più probabile.

Si dispone quindi oggi di una messe di dati che, benché insufficiente per pronunciamenti definitivi, permette comunque di avviare un più serio ragionamento circa la questione.

Si tratta di studi condotti su significativi campioni di popolazione, ma inevitabilmente esposti alla difficoltà di isolare il possibile fattore di campi elettromagnetici da altre e concomitanti e note cause patogenetiche.

L’opinione degli esperti

In assenza di certezze sul legame causa-effetto tra patologie e campi elettrici, esemplare è il giudizio espresso da Enrico Pisa e Carlo La Vecchia. Nel loro interessante articolo “Assolti per insufficienza di prove” (in “ControCancro”, supplemento al n.3 del 30/3/97 del quotidiano “La Piazzetta”), dopo aver brevemente delineato lo stadio di avanzamento delle ricerche in materia, traggono le seguenti condivisibili conclusioni: “La letteratura scientifica fornisce l’indicazione che l’esposizione protratta a questi campi potrebbe avere un ruolo nel processo di cancerogenesi: tuttavia questi studi, nel loro complesso, non riescono a fornire elementi per un giudizio conclusivo di associazione causale. D’altro canto, considerato il potenziale impatto in termini di salute pubblica, questa ipotesi non può essere trascurata senza che siano condotte ulteriori e più efficaci che consentano di dirimere, in senso positivo o negativo, le incertezze sussistenti”.

Una posizione di estrema cautela, senza inutili allarmismi, ma anche senza ingiustificate e frettolose assoluzioni, condivisa anche da Pietro Comba (Direttore del Reparto Epidemiologico Ambientale del Laboratorio di Igiene Ambientale dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma) coautore, congiuntamente a M. Grandolfo, S. Lagorio, A. Polichetti, e P. Vecchia, del fondamentale saggio “Rischio cancerogeno associato a campi magnetici a 50/60 hHz” (riprodotto con il titolo “Studi epidemiologici relativi all’esposizione ai campi elettromagnetici” in atti del Convegno “Paesaggio Elettrico”, promosso dalla Provincia di Bologna, 1996).

La legislazione sull’esposizione ai campi elettromagnetici 

Il legislatore nazionale, sulla base di livelli di esposizione ai campi elettromagnetici ritenuti tollerabili, ha sancito la necessità di garantire una distanza minima fra i conduttori degli elettrodotti e le abitazioni. Quest’ultima è stabilita in 10 m per le linee a 132 kV, 18 m per quelle a 220 kV e 28 m per quelle a 380 kV (D.P.C.M. del 23 aprile 1992).

Limiti da più parti ritenuti, tuttavia, insufficienti, in quanto riferiti a valori di esposizione ben al di sopra del valore di riferimento che i principali studi epidemiologici hanno associato al possibile incremento delle leucemie infantili (0.2 microtesla).

Meglio ha saputo fare la Regione Veneto che, unica, si è data una Legge di pianificazione territoriale che prevede una distanza minima degli elettrodotti a 380 kV dalle case di almeno 150 metri per lato, “misurati dalla proiezione sul terreno dell’asse centrale della linea” al punto più esterno dei fabbricati.

Interventi di recupero: precauzioni

Per introdurre un giusto livello precauzionale negli interventi di recupero, seppure nel campo dell’incertezza, possono essere utili una serie di indicazioni di comportamento. Il primo e più importante principio da seguire è quello di ridurre al minimo indispensabile i punti di erogazione e le apparecchiature utilizzanti la corrente elettrica; radiosveglie, termocoperte ecc. costituiscono altrettanti generatori di campi elettromagnetici, per cui se voliamo cautelarci circa i livelli e i tempi (altrettanto fondamentali in queste analisi per definire le soglie di rischio) di esposizione dobbiamo sforzarci di selezionare quegli utensili realmente indispensabili per il nostro comfort, rinunciando agli altri. Occorre, in altre parole, ottimizzare il rapporto consumi-prestazioni.

In secondo luogo è buona norma, ove possibile (cioè dove non ci siano elettrodomestici che di necessità devono essere continuamente connessi alla rete, come frigoriferi, caldaie, boiler, ecc.), installare uno o più disgiuntori di corrente, noti anche come bio-switch.

Si tratta di dispositivo in grado, in assenza di carico sulla rete (come quando si spegne la luce prima di coricarsi), di togliere tensione a una parte del circuito, passando dai consueti 220 Volts a circa 9 Volts (la tensione di una pila), per poi ripristinare un livello normale alla prima necessità di reimpiego.

Interventi più radicali, in cui sia possibile rinnovare in parte o in toto l’impianto elettrico esistente, possono prevedere la sostituzione dei cavi del circuito con cavi schermati e una configurazione a stella dell’impianto, con un tubo per ciascun punto di erogazione collegato direttamente alle scatole di derivazione. Questo per evitare la creazione di anelli o dipoli che potrebbero perturbare il campo elettromagnetico degli ambienti con il loro comportamento assimilabile a quello di un’antenna.

Ulteriori preziose indicazioni sono fornite da Enrico Micelli, architetto esperto di Bioarchitettura, nella dispensa da lui curata “Ristrutturazione, risanamento e nuove costruzioni” per il corso di Edilizia Bioecologica organizzato dall’Università degli studi di Bologna in collaborazione con la fondazione Elide Malavasi: “l’impianto di messa a terra deve realizzare valori di resistenza molto bassi, non superiori ai 5 ohm, ed avere i dispersori posti in zone non perturbate; è preferibile che il contatore venga installato fuori dal perimetro dell’edificio o nella zona più a sud e lontano dalle aree di sosta prolungata; tutti gli elementi metallici devono essere collegati tra loro mediante conduttori messi a terra per assicurare equipotenzialità (come previsto anche dalle norme Cei); l’inserimento di opportuni filtri assicura l’eliminazione di disturbi prodotti sia dagli elettrodomestici sia da impianti esterni. Una nota particolare meritano gli impianti a bassa tensione e a corrente continua. Essi sono i più “ecologici”, sia perché non generano campi disturbatosi patogeni, sia per la possibilità di venire alimentati con sorgenti alternative quali celle fotovoltaiche, microcentrali idrauliche ed eoliche, permettendo in tal modo all’utente di optare se usufruire della rete di distribuzione pubblica o no”.

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