Istat: valore aggiunto sommerso a 250 mld

Tra il 2000 e il 2008 l’ammontare del valore aggiunto sommerso registra una tendenziale flessione, pur mostrando andamenti alterni: la quota del sommerso economico sul Pil raggiunge il picco più alto (19,7%) nel 2001, per poi decrescere fino al 2007 (17,2%) e mostrare segnali di ripresa nel 2008 (17,5%). La valutazione dell’economia sommersa effettuata dall’Istat individua una «forchetta» di stime: «Il valore inferiore di quest’ultima – spiega la nota – è dato dalla parte del prodotto interno lordo italiano che è certamente ascrivibile al sommerso economico; quello superiore si riferisce, invece, alla parte del Pil che presumibilmente deriva dal sommerso economico ed ingloba anche una componente di più difficile quantificazione, data la commistione esistente tra problematiche di natura statistica e quelle di tipo più prettamente economico. L’incremento del 2008, rilevato sia in termini assoluti che relativi, è ascrivibile esclusivamente alla componente correzione del fatturato e dei costi intermedi, che fa registrare un incremento del 6,4 per cento, mentre le altre componenti restano sostanzialmente stabili (lavoro non regolare) o diminuiscono leggermente (riconciliazione stime offerta e domanda). Nel 2008 la quota del Pil imputabile all’area del sommerso economico (17,5 per cento nell’ipotesi massima) è scomponibile in un 9,8 per cento dovuto alla sottodichiarazione del fatturato ottenuto con un’occupazione regolarmente iscritta nei libri paga, al rigonfiamento dei costi intermedi, all’attività edilizia abusiva e ai fitti in nero, in un 6,5 per cento riconducibile all’utilizzazione di lavoro non regolare e in un 1,3 per cento dovuto alla riconciliazione delle stime dell’offerta di beni e servizi con quelle della domanda. Il peso del valore aggiunto prodotto nell’area del sommerso economico differisce considerevolmente per settore di attività economica. Nel 2008, nell’ipotesi massima, il valore aggiunto sommerso nel settore agricolo è pari al 32,8 per cento del valore aggiunto totale della branca (9.188 milioni di euro), nel settore industriale al 12,4 per cento (52.881 milioni di euro) e nel terziario al 20,9 per cento (212.978 milioni di euro). Questi valori percentuali si discostano in modo evidente da quelli d’inizio periodo, quando in agricoltura risultava sommerso il 29,7 per cento del valore aggiunto, nell’industria il 14 per cento e nel terziario il 23,2 per cento. Nel considerare il peso del sommerso nel terziario, sottolinea l’Istat, è utile tener presente l’effetto ‘calmieratorè del settore pubblico, dove il fenomeno è assente. Se si considera solo la parte di attività di mercato, cioè quella svolta dalle imprese, il peso del valore aggiunto sommerso in questo settore si attesta sul 29,9 per cento nel 2000 e sul 27,1 per cento nel 2008. Nel 2008, se consideriamo solamente l’economia di mercato, al netto della Pubblica amministrazione, il peso del sommerso Š del 20,6 per cento, contro il 17,5 per cento calcolato sull’intera economia. Tra il 2000 e il 2008 il valore aggiunto prodotto nell’area del sommerso economico ha subito andamenti diversi. Al considerevole incremento del 2001, che, nell’ipotesi massima, ha portato il peso del sommerso al 19,7% del Pil, è seguita una fase decrescente interrottasi nel 2008 quando l’ipotesi massima è passata al 17,5% dal 17,2% del 2007 (il valore più basso nel periodo 2000-2008).

2,9 DI UNITA’ DI LAVORO NON REGOLARI Le unità di lavoro non regolari in Italia sono 2,966 milioni, pari al 12,2% dell’input di lavoro complessivo. Lo afferma l’Istat nel rapporto sull’economia sommersa, che per il dato sul lavoro nero è aggiornato al 2009. Nel 2008, anno a cui si riferisce il dato sul sommerso, le unità di lavoro irregolare (ottenute dalla somma delle posizioni lavorative a tempo pieno e delle prestazioni lavorative a tempo parziale, principali e secondarie, trasformate in unità equivalenti a tempo pieno) erano circa 2 milioni e 958 mila (11,9%). «Se le prestazioni lavorative sono non regolari, e quindi non direttamente osservabili – spiega l’Istat – producono un reddito che non viene dichiarato dalle unità produttive che le impiegano. Nel 2008 l’incidenza del valore aggiunto prodotto dalle unità produttive che impiegano lavoro non regolare risulta pari al 6,5 per cento del Pil, in calo rispetto al 2000 quando ne rappresentava il 7,5 per cento». Dal 2001 al 2009 si assiste ad una riduzione delle unità di lavoro non regolari e ad una crescita corrispondente di quelle regolari. «Oltre a fattori strettamente legati all’andamento del sistema economico – spiega l’Istat – le diverse dinamiche del lavoro regolare e non regolare sembrano essere riconducibili anche ad interventi normativi, rivolti sia al mercato del lavoro che a regolamentare il lavoro degli stranieri non residenti sul territorio». L’Istat individua tre diverse tipologie di occupati in nero: gli irregolari residenti, gli stranieri non regolari e le attività plurime non regolari (in pratica chi svolge un secondo lavoro in nero). Dal 2001 gli irregolari residenti rappresentano la componente più rilevante delle unità di lavoro non regolari e si attestano nel 2009 intorno a 1 milione e 652 mila unità. L’altra componente rilevante è rappresentata dalle unità di lavoro riferibili alle posizioni plurime (937 mila unit…). Gli stranieri clandestini rappresentano, invece, la componente più piccola del lavoro non regolare (377 mila unit… di lavoro nel 2009). Nonostante gli interventi di sanatoria, tuttavia, è da rilevare che tra il 2001 e il 2008 il numero di lavoratori stranieri irregolari in Italia è cresciuto, subendo un’inversione di tendenza soltanto nel 2009. Tale dinamica è dovuta presumibilmente ad una crescita tendenziale della domanda di lavoro da parte delle famiglie (in particolare colf e badanti), che solo nel 2009 è stata controbilanciata dalla diminuzione degli stranieri occupati nelle imprese. «Nel periodo 2001-2008 gli interventi normativi – conclude l’Istat – hanno, quindi, agito nella direzione di un contenimento del lavoro non regolare, consentendo di trasformare lavoratori già occupati irregolarmente in posizioni lavorative regolari. La crisi economica dell’ultimo biennio, invece, ha modificato il quadro che, sebbene ancora basato su evidenze statistiche che dovranno essere consolidate, evidenzia una riduzione complessiva dell’occupazione pari a 660 mila unità, con una forte contrazione del lavoro regolare (-668 mila unità), accompagnata da una lieve crescita del lavoro non regolare (+8 mila unità). La diversa dinamica del lavoro regolare e non regolare ha determinato una modesta crescita del tasso di irregolarità, passato dall’11,9 per cento del 2008 al 12,2 per cento nel 2009». Osservando i vari settori, l’agricoltura emerge come il settore con la maggiore incidenza di unità di lavoro non regolari e con un tasso di irregolarità in aumento dal 20,9 per cento del 2001 al 24,5 per cento del 2009. Il settore industriale presenta il minor tasso di irregolarità: l’industria in senso stretto è coinvolta marginalmente dal fenomeno del lavoro non regolare, che nel periodo 2001-2009 si è mantenuto intorno al 4 per cento. Diverso è il caso delle Costruzioni, che impiegano una quota di lavoro non regolare significativa, ancorch‚ in discesa dal 15,7 per cento nel 2001 al 10,5 per cento nel 2009. Il settore dei servizi è interessato dal fenomeno del lavoro non regolare in misure differenti a seconda dei comparti. Il tasso di irregolarità è particolarmente rilevante in quello del Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni (18,7 per cento nel 2009).

DICHIARAZIONI FALSE E COSTI GONFIATI La parte più rilevante del fenomeno dell’economia sommersa «è costituita dalla sottodichiarazione del fatturato e dal rigonfiamento dei costi impiegati nel processo di produzione del reddito. Nel 2008 l’incidenza del valore aggiunto non dichiarato dovuto alle suddette componenti raggiunge il 9,8% del Pil (era il 10,6% nel 2000)». Lo rileva l’Istat. A livello settoriale l’evasione fiscale e contributiva è più diffusa nei settori dell’agricoltura e dei servizi, ma è rilevante anche nell’industria. Se si considera la sola economia di mercato, senza considerare, cioè, il valore aggiunto prodotto dai servizi non market forniti dalle amministrazioni pubbliche, il sommerso nel 2008 rappresenta il 20,6% del Pil, contro il 17,5% calcolato per l’intera economia.

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