L’involucro assemblato

Restauro e addizione alla Facoltà di Scienze Politiche presso Palazzo Resta Pallavicini
Il centro storico di Milano si è arricchito di un nuovo singolare edificio, un piccolo volume che si inserisce con discrezione nel complesso della Facoltà di Scienze politiche.
Appena percepibile tra la vegetazione, oltre il muro di via Conservatorio, si riconosce per una grande finestra, quasi un occhio, punto di osservazione privilegiato della seicentesca facciata di Santa Maria della Passione e asse prospettico per chi proviene dalla perpendicolare via Mascagni.
Dalla strada non è possibile cogliere del tutto la particolarità di questo nuovo padiglione, progettato dall’architetto Remo Dorigati e dal suo studio come estensione alla Facoltà di Scienze Politiche.
Costruito in luogo di un corpo esistente, ospita le aule di grande capienza impossibili da collocare nei corpi storici a causa delle dimensioni elevate, oltre che per problemi di sicurezza e incompatibilità tipologica.

Il volume si presenta solido e compatto, punteggiato da finestre irregolari.
La forma tronco-conica, decisamente insolita per il contesto cittadino, ne rafforza il senso di autonomia linguistica rispetto agli edifici circostanti.
Le pareti leggermente inclinate sono lisce e continue, le finestre complanari alla superficie esterna.
In sezione l’edificio si rastrema verso l’alto e si allarga sul terreno come a cercare una base più ampia di appoggio. E’ difficile dire se sia ispirato più ad un tronco tagliato, affiorante dalla vegetazione, o ad un sasso dalle superfici levigate dall’azione del tempo.
Un monolite sfaccettato che per certi aspetti ricorda anche una corazza, un elmo, una navicella (affiora dal terreno o è caduto dal cielo?).
Il senso di autonomia e compattezza dell’involucro indubbiamente sposa il clima di concentrazione e di raccoglimento indispensabile per l’attività che vi si svolge.
Tuttavia, le aperture irregolari e il passaggio vetrato rendono il volume meno impermeabile – anzi decisamente accessibile – poiché consentono di scorgere da più punti la presenza vitale delle persone al suo interno.
Il perimetro in pianta è il risultato quasi “meccanico”, come lo definisce con modestia l’autore, di un delicato inserimento tra i volumi circostanti. Volumi appena sfiorati per non privare le facciate preesistenti di luce ed areazione. Ne deriva una figura quasi compressa, cui il “nuovo corpo” si raccorda attraverso cerniere di passaggio, collegamenti vetrati e passerelle metalliche.
A est il profilo planimetrico è finemente modellato dalla presenza delle piante, in particolare della grande magnolia che domina il giardino cintato. Il rispetto della chioma dell’albero si riflette in uno scarto della facciata.

Il sistema costruttivo
Il sistema costruttivo dell’involucro edilizio è di notevole interesse.
La struttura mista (ferro e c.a.) è dotata di una orditura secondaria a supporto del tamponamento in pannelli prefabbricati: grandi lastre in cemento di forma diversa e irregolare, molto simili ad un carter avvolgente.
L’impiego di elementi prefabbricati è una soluzione inusuale per questa tipologia, ancorché la più indicata per rafforzare il senso di compattezza dell’involucro, per modellare un progetto che abbandona la tradizionale geometria ortogonale.
Occorre precisare che le tecniche di prefabbricazione non sono state in questo caso adottate per standardizzare la costruzione, bensì per realizzare elementi “unici e su disegno”, in luogo di moduli identici da ripetere in serie.
In antitesi con la pratica diffusa che produce edifici “assemblati” con componenti industrializzati, si è preferito optare per l’esatto assemblaggio di elementi appositamente realizzati e poi trasportati in loco.
Il progetto s’inserisce in una nuova tendenza dell’edilizia prefabbricata che ridona attualità alle riflessioni di Gillo Dorfles, di cui proponiamo un brano che ci sembra quasi anticipare il lavoro di Dorigati:
“… più che discorrere di singole unità morfologiche: mattoni, pietre, travi; oppure scale, finestre, porte , o ancora, spazio interno, spazio esterno, ancoraggio al suolo ecc. sarà bene discorrere di quell’insieme di elementi e fattori che vengono a costituire una “frase architettonica”; che – isolati – sono privi di significato (asemi, per usare la terminologia aristotelica) e che invece, uniti tra loro costituiscono una unità o sub-unità, dotata di significato e come tale analizzabile dalle diverse metodologie architettoniche.
Nel caso del design per l’edilizia industrializzata, ci troviamo per l’appunto dinanzi ad un esempio tipico di quanto ho detto sopra: molti dei sistemi usati dalla cosiddetta prefabbricazione a cielo aperto, e in genere nella coordinazione modulare di elementi industrializzati, impiegano delle unità prive in sé di ogni semanticità … Ma non appena gli stessi elementi siano usati per l’assemblaggio che porta alla realizzazione d’un “corpo” architettonico ecco che la loro significanza appare ben precisa. E’ intervenuto cioè il costituirsi dell’aspetto sintagmatico. Il significato che era assente – o meglio latente – a livello del singolo “pezzo” risulta evidente a livello dell’insieme coordinato degli stessi.”
Il progetto di Dorigati si avventura in un campo nuovo poiché esplora le potenzialità di un processo costruttivo in genere finalizzato alla esclusiva ricerca di elementi base da riprodurre con economie di costi e di scala; la prefabbricazione viene qui adottata per la possibilità di costruire agevolmente un ‘manufatto edile’ unico e difficilmente realizzabile in sito con le tecniche tradizionali.
Un manufatto in cui le componenti industriali non vengono celate dal vestito architettonico, ma lo disegnano.
“… Se, dunque, potremo accostare questo genere di prodotti edili, con più facilità agli oggetti del product design per quanto concerne il metodo produttivo, dovremo tuttavia – per quanto riguarda la loro impostazione semiotica – considerarli come depositari di una precipua qualità sintagmatica della cellula prefabbricata, solo artatamente distinguibile nelle sue componenti “linguistiche” e come tale da considerare ancora una volta come alcunché di morfologicamente e di semiologicamente unitario”.
Non dobbiamo trascurare il fatto che la forza espressiva dell’edificio di Dorigati è anche il risultato di un elevato livello di precisione nel trasferimento del progetto dalla carta alla realizzazione.
Le lastre hanno una geometria complessa, poiché la sagoma dei pezzi è disegnata da segmenti inclinati in pianta, sezione e alzato.
L’assemblaggio dei componenti finiti dunque non consente errori.
Le lastre devono combaciare in un incastro perfetto, sebbene i giunti di connessione alla struttura consentano una leggera regolazione.
L’aspetto materico e la colorazione dell’edificio sono ottenute mediante l’aggiunta di pigmenti durante la colata nei casseri, soluzione perfettamente compatibile con la ricerca di un immagine dilavata e irregolare della superficie.
Un effetto che nel tempo la pioggia accentuerà lavando le lisce pareti inclinate, così da assumere un aspetto terra-ferruginoso.
Non c’è dubbio che le soluzioni costruttive di questo edificio siano in primo luogo il risultato di una ricerca linguistica e di significato.
E questo forse spiega il percorso progettuale che ha portato Dorigati a valutare diverse ipotesi, dall’impiego di un conglomerato a grana grossa così da apparire come “ceppo lombardo”, fino alla vegetazione rampicante coltivata come rivestimento su una leggera rete metallica.
Probabilmente la soluzione finale, depurata dei riferimenti imitativi al contesto di inizio secolo o mimetico-vegetali, è la più indicata a sottolineare con forza il senso di compattezza dell’involucro.
Una sensazione che il visitatore percepisce nettamente avvicinandosi all’edificio e attraversando il ponte di collegamento vetrato che immette nell’aula magna. Quest’ultima merita un cenno per la grande finestra angolare che si affaccia su Santa Maria della Passione, nonché per il lungo lucernario triangolare che ne taglia in due il soffitto e crea un gradevole bagliore anche quando l’ambiente viene oscurato per le lezioni.
La costruzione del padiglione è solo il primo passo di un ampio intervento che prevede la riqualificazione dell’intero complesso universitario, tramite il restauro conservativo degli edifici esistenti.
Attualmente solo l’edificio su via Passione è stato ultimato, rispettandone la tradizionale tipologia a corridoio con stanze su entrambi i lati. Le zone interessate da maggiori interventi riguardano i collegamenti verticali, potenziati per servire anche le nuove aule del corpo annesso.
Ancora in fase di realizzazione è il restauro conservativo di palazzo Resta Pallavicini, in cui verranno realizzati una nuova biblioteca, uffici, spazi di rappresentanza e per la didattica.
L’edificio risale al Settecento, ma gravemente danneggiato durante i bombardamenti è stato ampiamente ricostruito nel dopoguerra dall’architetto Lancia in uno stile milanese anni ‘30. Ora si tenta un recupero nel rispetto della preesistenza.
L’intervento prevede la conservazione delle parti più antiche (atrio, colonne e scalone d’ingresso) e di alcuni interni d’epoca ben conservati. Il recupero presterà attenzione particolare ai rivestimenti, ai pavimenti e agli elementi di arredo fisso (lampade, porte, finestre, ecc.)
L’ultima fase del progetto riguarderà il rifacimento degli spazi esterni, interessati dagli scavi per gli impianti tecnici. Una volta posate le pavimentazioni, ciotoli, beola a spacco e granito martellinato, finalmente il complesso potrà essere pienamente vissuto e apprezzato per la capacità di connettere, alternare e mescolare spazi e linguaggi di epoche diverse.

Intervista all’autore

Benché concepito come estensione di altri edifici, questo progetto rappresenta un’occasione unica per realizzare un fabbricato ex novo nel centro di Milano. Il tuo è un progetto coraggioso e innovativo. Che rapporto hai con questa città? Con quale spirito hai affrontato il progetto “per” Milano?
Non c’è per me una particolare interpretazione di Milano, ma di alcune architetture milanesi. La mia attenzione è rivolta allo schema a padiglioni del Politecnico, in particolare all’edificio del Trifoglio, progettato da Ponti. In realtà credo che ci sia una cultura ottocentesca che forse è interessante rivedere, soprattutto adesso che ci muoviamo con i temi del paesaggio. In passato si è svalutato l’atteggiamento positivista, per cui ogni funzione – come nell’ospedale – è separata dalle altre. Oggi credo che questo tema abbia delle potenzialità da riscoprire e non sento il bisogno di collegare i padiglioni o di concentrare le funzioni in un unico edificio.
Il primo segno è stato dunque quello di pensare ad un vestibolo tra i due corpi esistenti, ad una cerniera, in sostituzione di un vecchio garage che sorgeva in quella posizione. Naturalmente si tratta di una cerniera formale, poiché non è pensata per collegare fisicamente i percorsi degli edifici.

Nelle tue lezioni al Politecnico spesso stimoli gli studenti ad individuare un “aggettivo” per descrivere sinteticamente l’atteggiamento prevalente che il progetto (o il progettista) esprime nei confronti del contesto. Confronto, contrapposizione, equilibrio, misura … Quale aggettivo/atteggiamento hai voluto esprimere in questo edificio?
Posso dire solidità. Altrimenti dovrei ricorrere a immagini formali che sono vere e false. Il tronco, la pietra, la pianta centrale. Tutti questi riferimenti sono dentro al progetto, anche se in definitiva l’idea era quella di solidità e compattezza. Solidità espressa nella compattezza materica. Trovo che la forma adottata non avrebbe potuto legarsi ad altri materiali, come il vetro, che avrebbe richiesto una complessa membratura a ragnatela, la cui ricchezza di disegno alla fine mi sembrava smembrare l’idea.
Il problema è la confusione che accade nella testa di un architetto, per cui non sa più se c’è stata prima un osservazione, un input, un problema che ha influenzato il progetto più di un altro. Quindi a posteriori si tende a razionalizzare. Il luogo, la funzione … in realtà questi processi non sono mai così lineari e a volte il progettista seleziona in buona fede delle cose che non è vero che gerarchicamente hanno avuto quel ruolo e quel peso, ma appaiono le più evidenti una volta realizzata la costruzione. Quello è il punto! Era implicito, l’avevi dentro, ma non lo sapevi. In effetti, ho pensato ai padiglioni dell’università solo a posteriori.

La costruzione di questo edificio impiega la tecnica del prefabbricato e – curiosamente – la utilizza per realizzare elementi “unici e su disegno”, al posto di moduli da ripetere in serie.
In contrasto con l’uso diffuso che produce edifici “assemblati” con componenti industriali o semilavorati, hai preferito optare per l’esatto assemblaggio di elementi appositamente realizzati e poi trasportati in loco. Scelgo l’aggettivo ‘esatto’ e penso a Calvino, alle lezioni americane. Quale pensi debba essere il ruolo del progettista nello sviluppo dell’innovazione e della ricerca tecnologica?

Era importante, perché il blocco fosse compatto, solido, forte, che struttura e vestito coincidessero, che l’involucro non fosse ricoperto da un secondo strato – come un impermeabile sciatto sopra ad un bel vestito – ad esempio, in pietra o piastrelle, soluzione che sorge spontanea. Se poi fosse stato intonacato avrebbe avuto problemi con l’acqua a causa delle pareti inclinate. Le architetture che lavorano con i processi di decostruzione della forma, o che lavorano sulla tettonica, sono in genere rivestite da un impermeabile di zinco o lamiera corten. Ho preferito i pannelli di prefabbricato perché si prestano a qualsiasi manipolazione. Vi si può annegare di tutto, metallo, vetro, pigmenti. Penso alla sperimentazione che Scarpa faceva con la sabbia… I pannelli vengono realizzati in uno stampo e come tali, a differenza del mattone e dell’intonaco, sono più manipolabili. Restituiscono qualsiasi superficie – la corteccia, le foglie, il sasso levigato – e conferiscono nuove vibrazioni alla materia.
Riguardo all’esattezza penso che sia importante individuarla in primo luogo nel processo costruttivo. La precisione esecutiva si può realizzare solo in cantiere, soprattutto in un progetto che prevede pareti inclinate sia in pianta che in sezione.

Ricordo che a lezione, circa dieci anni fa, parlasti del rapporto progetto-imitazione-natura (citando la polemica classico-romantico). Perdona la vaghezza dei miei ricordi, ma sarei interessato ad approfondire la metafora naturalistica (il sasso levigato, il tronco tagliato) che ha ispirato le forme di questo edificio.
Nel periodo di quelle lezioni i temi dominanti riguardavano i problemi urbani, il concetto di caos, contaminazione, hybrid buildings, i segni delle infrastrutture … eppure ricordo che al Politecnico presentarono una mostra con gli ultimi disegni di Michelucci: poetici edifici a forma di albero. Cosa ne pensi?

Penso che il paesaggio sia un tema da cui possiamo estrarre molti materiali per la progettazione. In passato la natura era sfondo, come nei disegni di Mackintosh o di Wright. La natura partecipava dell’architettura come commento, la raccoglieva, la proteggeva, la faceva diventare sua ma era solo uno sfondo, come nei dipinti Leonardo. Lo sfondo della Madonna delle Rocce commenta una certa durezza/dolcezza e forza.
Oggi l’aspetto di molti materiali è riflessione di alcune proprietà e temi della natura; la terra, il fango, il suolo duro… . All’inizio del progetto il mio riferimento era ancora l’architettura, la pianta centrale, il teatro di Alvar Aalto a Essen… Poi, nella scelta del materiale il volume è diventato un tronco o una pietra. Per cui mi sono accorto che quando lavoravo con il cemento e pensavo al sasso levigato, mi trovavo in corrispondenza con Libeskind che ha traslato la pelle dell’elefante nello zoo. Per cui posso dire che la natura diventa ‘materia’ di progetto.
Quando lavori sulla città ti accorgi che gli elementi tradizionali della mia formazione, della mia generazione, i riferimenti della tipologia e della morfologia, non ti fanno procedere più di tanto. Hai bisogno di altri riferimenti. Per esempio, vengono trascurati i problemi di scala e del paesaggio. Come stabilire l’altezza dell’edificio, il numero di piani, ecc.? In questo senso, il paesaggio viene ad arricchire e anche annullare alcuni principi della progettazione tradizionale che si dimostrano deboli e insufficienti. E’ più importante costruire in mattone, nel rispetto della tradizione della cascina lombarda, o leggere le increspature della terra, dell’argilla, il colore della creta? Noi siamo stati obbligati a guardare oltre.

A lato sono pubblicate foto delle fasi di costruzione.
Il disegno di facciata prevede l’accostamento di pannelli verticali inclinati dell’altezza dell’edificio.
Il progetto dei pannelli è stato disegnato dai vincoli costruttivi che includono ovvie considerazioni logistiche, quali il trasporto fino al centro cittadino, il peso e la messa in opera mediante sollevamento meccanico.
L’altezza dei pannelli è condizionata dalla necessità di sollevarli con gru oltre il colmo dell’edificio al fine di raggiungerne tutti i lati. L’operazione è stata effettuata ruotando orizzontalmente le lastre che sono dotate di agganci su tutti i lati.
La struttura interna delle lastre è a sandwich, con uno spessore totale di 20 cm.

Il corpo di fabbrica poggia su una fondazione continua in c.a. nella parte sotterranea, mentre la parte emergente è costituita da una struttura puntiforme mista (ferro e c.a.), dotata di una orditura secondaria in ferro a supporto dei pannelli prefabbricati.

Per scaricare la planimetria del piano terreno in PDF
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Per scaricare la pianta del piano primo in PDF
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Per scaricare il prospetto parziale in PDF
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Per scaricare il prospetto su via Conservatorio in PDF
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Per scaricare la sezione in PDF
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L’arch. Alessandro Villa è libero professionista specializzato nella progettazione di architettura degli interni, svolge attività di ricerca e consulenza nel settore dei materiali e delle finiture (www.alessandrovilla.it).



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