Tecnologie per il recupero delle strutture lignee

DIFFERENZE E ANALOGIE TRA IL LEGNO MASSICCIO E IL LEGNO LAMELLARE
Pur soffrendo di alcune comuni patologie e di simili processi di degrado, credo sia opportuno distinguere fra le tecnologie di recupero del massiccio e del lamellare.
È ben vero che i due materiali sono stretti parenti, ma notevoli e significative sono le differenze. C’è anche una questione temporale che li differenzia: costruiamo, nel nostro paese, da non più di trent’anni col lamellare, perciò conosciamo esattamente come tali strutture siano state concepite e per di più ci sono sempre i progetti ed i calcoli originali.
Per le strutture di legno, il più delle volte è necessario un preliminare lavoro di ricostruzione anamnestica, di comprensione della concezione strutturale sottesa e di restituzione della qualità dei materiali e delle tecniche impiegate. In altre parole per il lamellare conosciamo ciò che è necessario per intervenire, mentre per il massiccio
la questione è più intrigante, anche se esso è in opera da poco tempo, proprio perché non ha caratteristiche meccaniche note e certe, né modelli sicuri di riferimento.
Condizioni diverse preludono a criteri di consolidamento, riabilitazione o adeguamento diversi, assolutamente non intercambiabili, anche se spesso, ripeto, le cause di degrado o fuori servizio sono simili, poiché provocate dalla presenza dell’acqua, nelle sue varie forme, a cominciare dall’insidiosa umidità fino ai micidiali ristagni, che alimentano batteri e muffe e quindi xilofagi.
La vera differenza comunque fra il legno massiccio ed il legno lamellare è, sinteticamente, una sola: il legno lamellare appartiene alla scienza delle costruzioni, il massiccio alla tecnologia. Ovvero, mentre il primo è “calcolabile”, cioè si può quantificare la sicurezza con buona approssimazione con modelli che presumono la conoscenza statistica delle caratteristiche meccaniche,
il massiccio è più difficilmente perimetrabile, in quanto caratterizzato da parametri aleatori, con elevati coefficienti di dispersione delle prestazioni fisico-meccaniche e pertanto la sicurezza è legata più a fattori esecutivi, pratici e conosciuti nel loro comportamento in opera. Nella carpenteria col massiccio la tradizione è indispensabile riferimento, mentre col lamellare è più facile sporgersi oltre il già visto, perché c’è “la rete di sicurezza” dei moderni modelli di calcolo. Servirebbero più pagine e più sottili distinguo, ma si tenga questa semplicistica e rozza sintesi fra i due materiali, pur accomunati da tante analogie, se non altro nel loro destino finale, che è quello di marcire o bruciare, per cui in gran parte i problemi di durabilità sono gli stessi, per giustificare le diverse metodologie di recupero.
LEGNO MASSICCIO: TECNOLOGIA IN SUBORDINE AL PROGETTO
Decisivo per la scelta delle modalità di intervento per il recupero delle strutture lignee non è il sapere tecnologico, bensì l’obiettivo, la filosofia, le intenzioni del restauro, che possono essere congelate nell’opera o nella testa del restauratore.
Sostengo cioè che la tecnologia è in subordine al progetto di restauro.
Se così non fosse, basterebbe un buon trattato, complesso fin che si vuole, ma a ciò soccorrerebbe il computer, che metta in relazione patologia/tecnica e materiali, per eseguire qualsiasi riabilitazione funzionale
o strutturale.
Ma se pensiamo che l’intervento di restauro sia squisitamente un fatto culturale e che l’edificio, che ha compiuto un tratto più o meno lungo della sua vita, abbia bisogno di quel e non altro intervento, in sintonia con quel processo di degrado, allora non si può che accettare la subalternità della tecnologia, pur ammettendo che alla fine, tecnologia e progetto debbano essere sinteticamente ed univocamente azione unitaria.
Chiarite dunque le finalità e le intenzioni del restauro, si tratta di individuare la tecnologia conseguente. Mi spiego con un esempio, forse banale, ma esplicativo di quanto fin’ora detto.
La giacca, che indosso abitualmente, ha i gomiti consunti. Cosa fare? Buttarla e comprarne una nuova! È questa una ipotesi che equivale alla demolizione e ricostruzione di un edificio.
Un’altra possibilità, visto che vorrei ancora indossare la giacca a cui mi sono affezionato, è quella di darla ad un’esperta ricamatrice, che con grande pazienza ed abilità, ricostruisce trama ed ordito della parte lisa: ciò equivale ad una mimetica ricostruzione delle parti degradate dell’edificio.
Un’altra possibilità, in ciò era brava mia madre, è quella di coprire con due bei rappezzi, magari in pelle, i gomiti consumati. Questa operazione ha il suo equivalente negli interventi restaurativi che mettono in evidenza l’intervento, senza nasconderlo, facendo in modo che l’aggiunzione armonizzi con l’esistente. Più spesso succede che l’intervento si vede, ma non armonizzi per niente! Altra opzione. Visto che il resto della giacca è ancora in buono stato, ne taglio le maniche e la uso come un gilè, oppure ne uso la stoffa per un altro indumento.
Come dire, ne faccio un uso alternativo, anche se non più quello originale. L’analogia col riuso edilizio mi pare evidente e gli esempi sono infiniti, anzi spesso siamo di fronte al riuso del riusato! Infine, proprio perché non riesco ad abbandonare quell’indumento che mi ha accompagnato in tante vicende della mia vita, ben pulito, lo infilo in una custodia di cellofan con l’antitarme, la metto nell’armadio e ogni tanto me lo guardo, come un feticcio.
A cos’altro equivale la conservazione di un oggetto d’uso, privo di fruizione, se non a puro gusto contemplativo? Certamente nella conservazione ci sono ragioni di testimonianza, di memento (monumento), ma per ora si valuti l’esagerazione del gesto quando è solo fine a se stesso.
Ad ognuna di queste scelte è corrisposta comunque una diversa tecnologia di intervento, assolutamente in subordine alla scelta di fondo. Ognuna delle tecnologie impiegate può avere a sua volta alternativa: le tecniche
di conservazione, ad esempio, si possono richiamare a prodotti più o meno sostenibili, tradizionali o innovativi: i materiali sono molto più vari di quanto si possa immaginare, senza contare che sono possibili nuove invenzioni.
Si dipana dunque la sostanza del tema delle tecnologie per il recupero. Da una parte devono essere in forte armonia con le intenzioni del recupero. Ma non basta, perché bisogna poi scegliere fra i prodotti alternativi
che il mercato offre e che le maestranze padroneggiano, o le attrezzature consentono, lasciando comunque aperta la strada all’invenzione progettuale o a quanto
il particolare caso di intervento suggerisce a chi ne ha capito la concezione e le sue vicissitudini temporali.
LEGNO DI SACRIFICIO
Il ponte di Sciaffusa, non è ciò che appare.
Esso era rivestito come fa vedere il settecentesco dipinto di William Pars.
Il legno di rivestimento -tutti i ponti di legno alpini hanno la copertura ed il rivestimento laterale- non è in rappresentazione, bensì ha la fondamentale funzione di proteggere la struttura. Inevitabilmente, nonostante
la manutenzione, le assi del rivestimento e le scandole del tetto, sottoposte ai raggi ultravioletti, alla pioggia e all’umidità del fiume, degraderanno: niente male, si possono facilmente sostituire. Hanno comunque assolto
il loro principale scopo: si sono sacrificate per la struttura! Il legno di sacrificio è dunque un espediente per la durabilità. Gli esempi sono molteplici e spesso tale espediente diventa elemento di ornato e aggiunge bellezza.
Altre volte è segno distintivo di un’epoca o stile.
Il legno di sacrificio è l’elemento di barriera fra umidità di risalita e parti strutturali importanti, come le mensole di appoggio delle travi o capriate. Altre è frapposto
fra terreno e struttura e si offre alla voracità dell’umidità di risalita.
Più spesso però si frappone fra la pioggia e il legno strutturale.
Sempre deve essere confezionato in modo tale che sia facile e poco onerosa l’azione sostitutiva. Da molto tempo registro tali espedienti e mi sono convinto che le strutture di legno meritano questa attenzione.
Non è infatti difficile individuare quali siano gli elementi che vanno difesi e che con poca spesa si possono proteggere.
E laddove non sia possibile la protezione con elementi di sacrificio, bisogna fare in modo che l’elemento deteriorato, sia facilmente sostituibile.
La sostituibilità diventa dunque principio di progettazione e di concezione di durabilità, ma anche di legittimazione restaurativa.
L’IPOTESI DELLA SOSTITUIBILITA’
In sintesi, sostengo che l’azione restaurativa
del legno contempla anche la sostituzione di elementi deteriorati, in tutto o in parte. Addirittura, quando l’elemento è stato progettato per questa eventualità, parlerei semplicemente di manutenzione.
Parlerei invece di sostituzione quando diventa metodologia operativa, in caso di degrado non previsto o accidentale.
A questa ipotesi di intervento sulle strutture di legno si richiamano molte tecnologie esecutive e se ne escludono altre.
Ad esempio gli interventi riparativi che impiegano, dopo aver scattivato le parti marcite, getti di beton epossidico, con diversi inerti, previo inserimento di barre di vetroresina o acciaio inossidabile, non sono contemplati
da questa ipotesi, mentre vengono privilegiate e legittimate tutte le tecnologie che impiegano solo legno, come gli incalmi o le fettonature.
Certamente ci sono anche casi dove questa regola è inapplicabile. Se su di un legno marcio, ci sono dipinti o testimonianze tali da essere conservate, userò tutti i materiali possibili e tutta l’intelligenza tecnica, per salvaguardare quel bene. Ma il mio discorso, come ho premesso, riguarda l’azione di recupero delle tradizionali, moderne e contemporanee -ma ordinarie- strutture lignee, mentre è ovviamente escluso il restauro del legno nelle opere d’arte: le tecniche restaurative di un violino del Guarneri del Gesù o uno Stradivari, ma anche di una capriata medioevale decorata, abbisognano di ben altre considerazioni di quelle svolte in questa nota, che ha come mira il restauro del legno dell’edilizia corrente, pur strutturalmente impegnativa.
Ho operato spesso nel recupero delle strutture lignee con questi criteri, anche se con difficoltà. Le Soprintendenze, che inorridiscono solo a sentir parlare di sostituzione di elementi, difficilmente permettono queste tecnologie, anche quando è evidente che il pezzo è stato progettato per essere sacrificato. Ovviamente preferiscono la conservazione. Anche acritica. Le figure e le didascalie chiariscono alcuni di questi interventi, che appartengono alla radicata ed alta, purtroppo poco conosciuta, cultura del legno o se si vuole, alla cultura materiale e a quel buon senso comune, così mirabilmente ribadito da Raffaele La Capria ne “La mosca nella bottiglia, elogio del senso comune”, Rizzoli, 1996. Altre volte l’intervento di recupero è suscettibile di tecnologie estemporanee, imposte quasi dalla particolare situazione
e condizioni al contorno, specie quando ci sono unità abitative confinanti e a cui non si può accedere.
Spesso anche la sperimentazione di nuove possibilità offerte da materiali innovativi, vedi ad esempio l’impiego di fibre, indirizza l’intervento, così come qualche successo ottenuto dalla ricerca teorica e sperimentale.
Nessuno infatti si illude che si possa dire qualcosa di definitivo. Ogni intervento, quanto mi ripeto!, ha e deve avere una sua storia, di difficile generalizzazione.
Con più calma si potrebbe però dare un minimo di organizzazione alla materia, cioè alla disciplina della Tecnologia del recupero edilizio, ma lo spazio di un articolo è chiaramente insufficiente.
Ad esempio, solo l’ambito delle tecnologie per il rinforzo o l’adeguamento statico dei solai lignei è ricchissimo di alternative, dalle solette collaboranti in c.a. con diverse famiglie di connettori, alla solidarizzazione di pannelli di legno, di diversa tipologia, oppure solette grigliate, connesse con cavicchi di legno, con collanti, oppure con l’impiego di stati di coazione e presollecitazioni, ecc., ecc., meriterebbe più capitoli, anche perché sono in atto interessanti sperimentazioni e nuovi concetti di prodotto.
Così per le coperture.
Un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato alle metodologie di indagine diagnostica.
Non è comunque detto che ritornerò, con sistematicità, su questi argomenti.
Invece, vorrei dedicare il paragrafo conclusivo ancora ad un concetto generale, poiché non si può intervenire se non si è capito.
INTERVENIRE DOPO AVER CAPITO
Se dovessi indicare un testo introduttivo alla questione della “diagnostica” e conseguente “terapia” per gli interventi di recupero delle strutture lignee non avrei dubbio nel consigliare la lettura di E. A. Poe o Conan Doyle, ovvero di indicare nel pensiero positivista la fonte di un operare ancora assai ricco di inferenze per la comprensione del manufatto, indispensabile premessa all’azione progettuale di recupero.
Si tratta cioè, parafrasando il metodo proposto da questa corrente filosofica ottocentesca, di raccogliere, sistematicamente, dati, tutti i dati e classificarli. Solo i dati possono indurre alla comprensione, o se si vuole, dai dati si può dedurre e formulare la diagnosi.
Soprattutto i particolari costruttivi sono gli indici e gli indizi più persuasivi che ci possono ricondurre alla concezione strutturale originaria e di insieme. Da ciò l’insistenza osservativa sull’esecuzione del manufatto ligneo più che sulla figura statica che può sottendere.
Come ho detto all’inizio, la maggior parte delle strutture lignee del passato non si richiama affatto agli attuali modelli di configurazione statico-strutturale. Il giudizio su una struttura lignea è questione di “occhio clinico”, nel senso che è necessario riconoscere rapidamente la logica sottesa nel manufatto, che è convalidata da piccole sfumature costruttive, da quasi impercettibili particolari, capaci di rilevare l’intelligenza che ha guidato le mani e l’ascia del carpentiere. Così come la medicina
e la chirurgia devono essere insegnate nelle aule universitarie, ma studiate al letto del paziente, anche gli interventi sulle strutture lignee presuppongono una vasta conoscenza di teorie costruttive, di concezioni strutturali,
di leggi della statica e della resistenza dei materiali, ma solo il lavoro sul campo, l’attenta osservazione del manufatto può consentire una diagnosi e prescrivere
una terapia, perché si è riconosciuto un processo, o se vogliamo, si è arrivati a “possedere” l’ideazione che ha presieduto alla realizzazione. Se non si “possiede”
il manufatto, meglio sarebbe non intervenire. Alcune ipotesi preliminari sono ovviamente necessarie per restringere la ricerca dei dati rilevanti, altrimenti si correrebbe il pericolo della dispersione o di raccogliere dati inutili.
Su tali ipotesi di base non è facile trovare consenso, specie nel settore del recupero, dove le posizioni teoriche oscillano fra l’estremo dell’assoluta conservazione e l’opposto della nuova aggiunzione o riprogettazione.
L’ipotesi forte, che sta alla base del mio modo di concepire una struttura lignea, è che chi l’ha progettata ed eseguita aveva la consapevolezza che alcune parti sicuramente sarebbero degradate, marcite, nonostante la pratica della manutenzione. Quelle parti erano generalmente progettate per essere facilmente sostituite. In ciò dunque sta proprio il concetto di manutenzione del legno, capace di prolungarne la vita…
Al contrario, le costruzioni in pietra o in mattoni e recentemente in c.a., inducono a minori attenzioni manutentive. Anzi, nonostante il degrado sia evidente, anche in edifici recenti, i lunghi tempi di vita assegnati dalla collettività agli edifici in c.a. e in muratura, hanno radicato la cultura della non-manutenzione.
Una casa costruita venti-trent’anni fa, è considerata “nuova”, anzi, se mostrasse segni di degrado, ci sarebbe sorpresa e si cercherebbero le “colpe” (errori nei copriferro, processo di carbonatazione, ambiente aggressivo…) e difficilmente si programma una attività manutentiva. Viceversa, alla tradizione costruttiva col legno, è associata la necessità e la pratica della manutenzione.
Un’altra mentalità è oggi collettivamente radicata: “l’usa e getta”. Quando un oggetto è fuori-servizio, è preferibile, poiché comodo e conveniente, disfarsene: montagne di rifiuti, cimiteri d’auto, materiali indistruttibili e inquinanti testimoniano l’insuccesso di un tale atteggiamento che nel frattempo però ha cancellato ogni pratica atta a prolungare la vita delle cose, degli utensili, degli oggetti.
Ma quando gli utensili e le macchine erano di legno – e fino a poco tempo fa non c’erano molte alternative – erano curati, progettati per parti sostituibili, in particolare quelle soggette ad usura o più vulnerabili.
Si guardi ad esempio al rastrello in legno per fieno. Oggetto bellissimo, leggerissimo, ma anche assai delicato e fragile, specie nei denti. Ma se un dente si dovesse rompere, assai facilmente lo si può sostituire, poiché
il sistema di fissaggio a cuneo si presta all’immediata riparazione con l’infissione di un nuovo dente. Così, con la stessa facilità, si può sostituire il manico o la rastrelliera, oppure il traverso di un’arfa (manufatto ligneo per l’essicazione di leguminose) o una scandola di un tetto. La cultura del legno è strettamente legata alla storia dell’uomo, poiché il legno è il materiale per eccellenza.
Non credo sia possibile separare, storicamente, i diversi settori d’uso, come l’utensileria, l’arredo, gli strumenti di lavoro, le strutture: la cultura del legno è unica. Possibile che, constatando l’ammaloramento inevitabile e ripetuto di parti di una struttura lignea, come le teste delle travi appoggiate ai muri, non si sia pensato a parti di sacrificio, da sostituire, con la stessa logica degli utensili o delle parti delle macchine rotte? Tutto ciò non è descritto sui libri. La cultura materiale è ancora troppo delegittimata
e intesa spesso come banalità, poco degna dei testi aulici. Ma il recupero del legno, del legno massiccio, non può che riferirsi ad essa.
LEGNO LAMELLARE
Come sinteticamente scritto nella premessa di questo articolo, le tecnologie per il restauro strutturale del legno lamellare sono alquanto diverse dal legno massiccio soprattutto perché:
– il degrado è generalmente manifesto e le cause sono facilmente individuabili;
– sono note, perché recenti e documentabili, sia la concezione strutturale, sia le modalità esecutive delle strutture da restaurare;
– il progettista è spesso ancora in vita e lui stesso può intervenire.
Il degrado del legno lamellare è dovuto ad imperizia progettuale, specie quando non sia prevista la difesa dall’acqua, in tutte le sue forme, e dai raggi ultravioletti.
Il ristagno dell’acqua è micidiale e non lascia scampo al marcimento: infatti i batteri ed i funghi possono vivere, e rapidamente riprodursi, solo in presenza di umidità.
Pertanto i particolari costruttivi sbagliati, nella concezione e nell’esecuzione, sono, assieme alla mancanza di manutenzione, sicuramente la causa prima del degrado.
Anche l’errata scelta della specie legnosa, in particolare per manufatti posti in ambiente igroscopicamente impegnativo, si pensi alle piscine o alle passerelle, agevola il degrado stesso.
Ma principalmente, mai si smetterà di ripeterlo, è l’acqua la causa dello sviluppo dei batteri e dei funghi del marcimento, agevolando gli attacchi xilofagi.
Da questo punto di vista non c’è differenza fra legno massiccio e legno lamellare.
ESEMPI DI INTERVENTI DI RECUPERO
La natura stessa del lamellare – che è quella dell’omogeneità costitutiva – pur nell’anisotropia delle caratteristiche meccaniche nella direzione principale degli assi dell’elemento strutturale, ha indotto ad interventi di recupero sostanzialmente simili, riducibili in definitiva a due alternative. Si tratta infatti o di togliere la parte degradata e sostituirla con una nuova, con la tecnica dell’”incalmo”, illustrata per il legno massiccio, oppure, più facilmente ed economicamente, di sostituire l’elemento, fino al limite della sostituzione dell’intero manufatto.
Si possono differenziare eventualmente le modalità di unione fra la parte vecchia e la parte nuova, privilegiando collanti, ferramenta metallica o altri mezzi di collegamento. Fortunatamente i casi di intervento sulle strutture in legno lamellare sono assai rari ed anche se mi costa molto parlare di insuccesso di strutture realizzate non più di 25 anni fa, considero questa pena lo scotto da pagare all’ignoranza e alla sottovalutazione del problema della durabilità nell’introduzione del legno lamellare nel nostro Paese: c’erano infatti problemi più urgenti e pressanti da risolvere, come l’impostazione della verifica della sicurezza, la resistenza al fuoco,
l’ancora non risolta questione della normativa.
Ora però non è più perdonabile ripetere errori macroscopici ed è necessario porre tutta la nostra intelligenza costruttiva, esperienza e attenzione nel progetto col lamellare.
Se questa attenzione non è posta dai progettisti, siano le ditte che forniscono il lamellare e le imprese che lo pongono in opera a rifiutarsi di assecondare il sicuro insuccesso.
Anche la scarsa – più spesso nulla – manutenzione delle opere è causa di accelerazione del degrado. Fortunatamente c’è forte attenzione, anche normativa, a questo aspetto e seppure timidamente alcune nuove opere sono licenziate con allegato il libretto di manutenzione, con le istruzioni cioè delle operazioni da compiere periodicamente per allungare la vita del manufatto.
Si dovrebbero cominciare a pubblicizzare aforismi del tipo: “Il degrado non dipende dal legno, ma dal progettista”;
“Non risolvere il problema della durabilità equivale alla fine dell’impiego del legno in edilizia”;
“Si usi il legno lamellare esposto al sole e alla pioggia solo se si vuole sostituirlo fra vent’anni (fra trenta se è di larice, fra quaranta se è iroko o cedro…)”;
“Allungare la vita del legno non costa di più, ma si deve essere disposti a non esibirlo allo scoperto”.
E via dicendo. Ora c’è una certa tendenza a programmare la vita degli edifici, ad esempio, un supermercato, considerato il veloce invecchiamento delle tecniche di vendita e l’obsolescenza tipologica, può essere sostituito dopo vent’anni, ma la durata di una chiesa deve essere più che secolare, perciò, per ora e per almeno ancora un po’, i materiali devono aver forte il requisito della durabilità.
Una sola espressione può racchiudere tutta la questione: se il legno degrada, la colpa non è del legno, ma delle teste di legno che l’hanno progettato e messo in opera!
Ho voluto enfatizzare questa questione, proprio perché la durabilità è il tema che oggi dobbiamo avviare a soluzione, con determinazione.
Continuare a sottovalutare il problema è davvero imperdonabile!
Vediamo dunque qualche caso concreto.
Il progetto di una palestra, alla fine degli anni settanta, prevedeva dei semiarchi in lamellare a vista.
Anche se l’elemento in lamellare fu opportunamente protetto da una scossalina, nella cerniera di attacco al plinto in c.a., l’acqua ristagnava, inevitabilmente. Dopo vent’anni il piede dell’arco era fortemente degradato.
Per il suo recupero si intervenne con un incalmo incollato, di abbastanza agevole esecuzione, anche perché era prevalente la sollecitazione di compressione e l’elemento, proprio perché era assente la copertura, era poco caricato.
Allo stesso modo ha operato il progettista per sanare il forte degrado del piede dei portali di una piscina, dovuto alla condensa provocata dal ponte termico della cerniera metallica di attacco alla fondazione. L’ipotesi iniziale di riparazione era quella di allungare la scarpa metallica: fortunatamente si è operato con un incalmo!
Per il recupero di alcune travi degradate di un ponte carrabile, marcito in corrispondenza delle unioni metalliche, specie in corrispondenza delle rondelle dei bulloni, che essendo sporgenti favoriscono il ristagno dell’acqua, si è prevista la sostituzione degli elementi strutturali con l’incasso dei perni. L’intervento prevede anche la realizzazione di una copertura al ponte, in modo da evitare che si ripeta l’insuccesso.
Altre volte gli attacchi fungini e batterici sono più inquietanti e di non facile soluzione, anche perché è impossibile evitare le cause di attacco, costituite dalla presenza di forte umidità, in pratica una nebbiolina costante, che si ha in manufatti posti sopra l’acqua
o nel caso di piste di pattinaggio sul ghiaccio aperte. Bisognerà sperimentare l’impiego di specie diverse dall’abete o individuare trattamenti protettivi efficaci.
Per ora si è proceduto alla sostituzione dell’intero manufatto.
Molto spesso la causa di degrado è l’errato posizionamento di barriere al vapore.
È il caso di una copertura, impermeabilizzata con manto asfaltico e barriera al vapore all’intradosso.
La mancanza di traspirabilità del pacchetto di copertura ha consentito lo sviluppo del Merulius lacrymans, che ha attaccato tutta la struttura di legno lamellare, rendendola inservibile solo dopo pochi anni.
Siano impiegate le barriere al vapore con la massima attenzione. In caso di dubbio, meglio niente! In questo caso, siccome le ife del Merulius attaccano e rompono le fibre del legno nel tentativo di espandersi per trovare acqua, non rimane che la sostituzione delle travi attaccate, perché non ci si può fidare della resistenza residua.
CONCLUSIONE
Tirare le somme sull’argomento del restauro del legno e del legno lamellare, o meglio sul consolidamento strutturale, non è operazione facile e tantomeno corretta. Infatti – ma ciò vale per ogni intervento di restauro – non ci sono regole universali, poiché ogni struttura è modello solo di se stessa.
Si tratta ogni volta di individuare la concezione strutturale sottesa, spesso assai diversa dai nostri contemporanei modelli, di esplicitarne la semantica, di determinare lo stato di consistenza, specie dal punto di vista meccanico e poi progettare l’intervento, se si hanno chiare le intenzioni, che, come detto all’inizio, possono oscillare nell’ampio spettro che va dalla conservazione all’innovazione.
Sui metodi di indagine diagnostica sono oggi a disposizione sofisticati strumenti e metodi di tipo non distruttivo.
Molto deve soccorrere l’occhio clinico, ovvero l’esperienza e la conoscenza, anche se sarà sempre il progetto che dovrà guidare l’azione restaurativa.
Altrimenti si rischia di confondere le conoscenze tecniche, o gli specialismi in tecnologia del legno, con l’azione restaurativa, che, vivaddio, appartiene
pur sempre all’architettura!
Si potrebbe infine aggiungere, a proposito di restauro, una postilla, quando cioè si restaura una struttura di altro materiale col legno lamellare.
Scontato l’impiego del legno lamellare in sostituzione del massiccio, specie quando non sono reperibili dimensioni sufficienti, è significativo il suo impiego in sostituzione del cemento armato: a parità di prestazioni e sezioni, si preferisce il lamellare,soprattutto qualora il peso sia determinante, come in zona sismica o laddove i terreni
di fondazione siano precari.
Anche in questi casi la decisione deve essere attentamente valutata, altrimenti si fanno errori culturali madornali.
Ad esempio la sostituzione del ponte dei Treponti a Venezia, realizzato nel 1933 in legno con una originalissima tecnologia di lamellare a secco, con un moderno lamellare incollato, non solo ha cancellato
il ponte originario, ma ha sottratto per sempre l’invenzione tecnologica che il vecchio ponte possedeva!

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