Protettivi chimici per il legno e metodi di analisi

La protezione vera e propria del legno viene invece effettuata tramite sostanze chimiche che lo rendono “inappetibile”all’attacco di organismi xylofagi.
L’obiettivo della protezione chimica è per definizione l’aumento della durabilità naturale della specie trattata a parita di condizioni d’uso.
Presso i laboratori dell’Istituto Giordano risulta possibile effettuare test in conformità alle norma europee per valutare tale caratteristica di “durabilità indotta” effettuando prove di contatto diretto con “ecosistemi” xylofagi.
I preservanti possono essere composti chimici semplici o miscele di diversi formulati; quelli che si trovano attualmente in commercio sono sostanzialmente di tre specie: prodotti oleosi naturali, sostanze sintetiche in solventi organici e sali minerali solubili in acqua.
Lo studio dei trattamenti risulta fondamentale per la valutazione del sistema più adatto alle condizioni richieste, per questo risulta utile in questo frangente fare una piccola carrellata sui prodotti e metodi di trattamento protettivo del legno.

I prodotti chimici protettivi utilizzati appartengo generalmente a diverse grandi classi:
Prodotti oleosi naturali
Derivano dalla distillazione frazionata del catrame di carbone, da cui si ottengono anche altri prodotti come l’asfalto per la pavimentazione delle strade e altri composti che hanno poi diversi tipi di applicazione.
Si usano molto gli olii di creosoto che agiscono soprattutto con l’acido fenico, la cui azione tossica per le crittogame è potenziata dall’azione degli olii viscosi che, seccando, si solidificano nei vuoti cellulari e bloccano l’accesso all’acqua, riducendo il dilavamento e l’evaporazione delle sostanze antisettiche.
Attualmente queste sostanze sono vietate nel nostro paese, ma erano largamente utilizzate in passato.

Sali minerali solubili in acqua
Come solvente per i preservanti del legno l’acqua presenta diversi vantaggi, poiché, oltre ad essere a basso costo e largamente disponibile, penetra facilmente nel legno e non è tossica, tuttavia comporta anche degli svantaggi perché provoca instabilità dimensionale nel materiale, generando rigonfiamenti, imbarcamenti e spaccature da ritiro e perché i prodotti in essa disciolti sono facilmente dilavabili.
Attualmente i preservanti di questo genere più usati sono il FACC (ammonio, rame, cromo), il CZC (cloro, zinco, rame) ed il CCF (rame, cloro, fluoro).

Sostanze sintetiche in solventi organici
Sono preservanti di recente introduzione sul mercato e costituiti da un composto attivo, insetticida e/o fungicida, disciolto in un solvente organico; riescono a dare al legno una protezione molto persistente, poiché le sostanze attive, insolubili nell’acqua, dopo l’evaporazione rimangono in profondità.
Tra i solventi più frequentemente utilizzati si ricordano alcuni prodotti della distillazione del petrolio e l’acqua ragia minerale, mentre per ottenere una funzione più specificatamente fungicida, si usano i “naftenati” di rame e zinco, i fenoli clorurati e i composti organici dello stagno e del rame.
Va infine ricordato che Istituto Giordano in concerto con diverse industrie produttrici di preservanti per il legno, di fronte alla minaccia di divieto di alcuni prodotti, hanno ultimamente rivolto sempre maggiori sforzi nella ricerca e nello sviluppo di nuovi e più sicuri prodotti, cosiddetti di tipo “soft”, biodegradabili e poco inquinanti, con attenzione rivolta verso la massima efficcacia con il minor impatto ambientale, determinabile per mezzo di prove di “ecotossicità”.
Tra gli insetticidi ad esempio, in sostituzione degli idrocarburi clorurati, vietati nel nostro paese, sono stati introdotti, con ottimi risultati, gli organofosfati, i carbammati, e soprattutto i piretroidi, assai meno pericolosi e già da tempo utilizzati nell’agricoltura.

Organofosfati e carbammati
Attualmente i “biocidi” più utilizzati sono gli organofosfati e i carbammati, che stanno sostituendo i clorurati.
Sono meno persistenti, ma potenzialmente più tossici: sono in grado, infatti, di neutralizzare un enzima fondamentale per il corretto funzionamento degli stimoli nervosi (enzima acetilcolinaesterasi); sullo stesso meccanismo d'azione sono basate alcune armi chimiche.
Anche questi composti diffondono e si distribuiscono nell'atmosfera attraverso il particolato. Rivestono una notevole rilevanza anche nella contaminazione delle acque.

Piretroidi
Originariamente venivano impiegati solo in agricoltura; nel 1994 negli Stati membri della Comunità Europea sono state impiegate in totale 320.000 tonnellate di pesticidi (di cui 35.000 tonnellate solo in Germania).
Bisogna ricordare che queste sostanze non scompaiono una volta utilizzate ma persistono nei fiumi, nelle falde acquifere sotterranee, nei mari e nel terreno, arrivando così alla catena alimentare umana accumulandosi con il passare degli anni.
Nell’ecosistema i piretroidi sono stati studiati in particolare a causa della loro estrema tossicità per gli ecosistemi acquatici.
I valori soglia per l’acqua potabile misurati nei laboratori Istituto Giordano (0.1 µg/l) costituiscono una dose letale per alcune specie di pesci.
I batteri e i microrganismi che purificano le falde acquifere (100 m di profondità) sono così sensibili che muoiono già al di sotto de valori soglia per l’uomo (acqua potabile).
Per quanto riguarda gli uccelli acquatici, molte specie sono minacciate, a causa di disturbi del metabolismo delle vitamina D e del calcio, che portano alla produzione di un guscio troppo sottile per garantire la nascita dei loro piccoli.
I piretroidi sono insetticidi particolarmente efficaci a tutt’oggi utilizzati in agricoltura sono inoltre tra i costituenti dei prodotti per la pulizia delle moquette e dei prodotti per la pulizia dei mobili, oltre che dei prodotti antitarlo usati per i mobili di antiquariato e vengono utilizzati regolarmente durante le disinfestazioni.
Vengono impiegati come pesticidi degli ambienti interni nelle grandi cucine, nelle trattorie, negli ospedali, negli hotel, negli asili, nelle scuole e negli uffici pubblici, oltre che su tutti gli aerei.
Il piretro naturale, insetticida derivato dai crisantemi, veniva utilizzato come sostanza di partenza per questi scopi.
Fino ad oggi era considerato un veleno naturale non tossico, sebbene molto allergizzante (già i Romani lo usavano come polvere insetticida contro le pulci).
Oggi la pianta del piretro viene coltivata nell’Africa Occidentale e la produzione è di oltre 10.000 tonnellate all’anno.
Poiché il piretro ha un breve tempo di “emivita” (periodo in cui il principio rimane attivo) e dopo l’utilizzo viene degradato in molecole inattive, è stato sostituito dai sinergisti.
Oggi viene prodotto per sintesi chimica; non viene quindi più degradato dagli organismi viventi, persistendo così nell’ambiente.
I piretroidi hanno tossicità centrale sul sistema nervoso e agiscono in senso fortemente allergizzante; provocano, come sintomi principali, malessere e mal di testa, senso di soffocamento, parestesia (bocca, lingua, braccia, gambe), formicolio, esantemi e prurito, indebolimento del sistema immunitario, alterazioni degli eritrociti e degli aminoacidi.
Negli animali da allevamento è stato riscontrato un accumulo nel tessuto adiposo, nel cervello, nel fegato, nel latte e nelle uova.
La deltametrina, sintetizzata nel 1973, rappresenta il capostipite del gruppo dei cosiddetti piretroidi fotostabili.
E’ una molecola pochissimo solubile in acqua, ma con una altissima solubilità nei solventi organici. Non possiede proprietà endoterapiche.
La persistenza misurata nel settore agronomico è di 3-4 settimane.
Conseguentemente le tecniche di trattamento si possono classificare in due principali categorie:

1. superficiali
2. impregnazione

Nella prima categoria rientrano tutti i trattamenti effettuati su legnami non esposti a condizioni estreme, generalmente il trattamento viene effettuato per mezzo di immersione, aspersione, o con la tecnica a pennello.
Nella seconda categoria si ritrovano invece i legnami destinati ad impieghi più gravosi e i sistemi di trattamento profondo o per impregnazione possono essere effettuati con cicli di pressione e depressione per mezzo di autoclavi o attraverso innovativi sistemi ad osmosi.

Analisi chimiche
Le analisi effettuate presso i laboratori dell’Istituto Giordano sui prodotti protettivi per il legno a base salina utilizzano come tecniche analitiche principali la spettrofotometria nel visibile (colorimetria) e l’assorbimento atomico.
Per i prodotti organoclorurati (vietati nel nostro paese) e organofosforati si può utilizzare la gascromatografia o la gas/massa mentre per i piretroidi si utilizza la cromatografia liquida (HPLC)

Preparazione dei campioni
A seconda della tipologia di “biocida” e della tecnica analitica da utilizzare si possono distinguere le seguenti tipologie di preparazione del campione.
Per l’analisi HPLC si scioglie il campione in un solvente ad elevata purezza che può essere: acetonitrile, acetone, metanolo, diclorometano, THF, xylene.
Se il campione si scioglie bene e risulta trasparente si può procedere direttamente all’analisi mentre se è presente anche un pigmento è necessario centrifugare a circa 12000 giri.
Per valutare la penetrazione e ritenzione del prodotto da analizzare è necessario effettuare un’estrazione con solvente (soxlet) e una filtrazione prima di procedere all’analisi gascromatografica o gas/massa.

Metodi di analisi
La spettrofotometria
Le analisi spettrofotometriche di laboratorio sfruttano la riflettanza oppure la trasmittanza di un oggetto alle varie lunghezze d'onda.
Lo studio “colorimetrico” è una tecnica analitica che trova un campo di applicazione assai vasto nell’analisi dei liquidi ed in continuo.
La sua validità è riscontrabile sia nella bibliografia, sia nei metodi di analisi ufficiali, riconosciuti dalle leggi vigenti, che si basano in gran parte su questa tecnica analitica.
Esaminando più a fondo il principio di misura della colorimetria, ci accorgiamo che la misura effettuata consiste nel valutare la quantità di energia raggiante di una radiazione luminosa di opportuna lunghezza d’onda che il campione (soluto) è in grado di assorbire.
La quantità di luce assorbita sarà proporzionale alla quantità di soluto presente e quindi alla sua concentrazione.
Da quanto detto è possibile anche comprendere la semplicità costruttiva inerente al metodo utilizzato e di conseguenza la larga applicabilità nel campo d’analisi.
La colorimetria, tuttavia, può avere delle interferenze provocate dalla eventuale torbidità presente nel campione se non opportunamente filtrata.
La quantità di energia raggiante che non viene assorbita prosegue il suo cammino fino a giungere all’elemento fotorivelatore che, amplificandolo, trasforma il segnale ottico in elettrico ai fini delle successive elaborazioni.
Appare evidente che una volta selezionata, attraverso l’elemento disperdente, una determinata lunghezza d’onda su cui lavorare, diventa di importanza primaria la funzione del fonorivelatore.
La spettrofotometria di assorbimento atomico si basa sull’assorbimento degli atomi degli elementi di alcune radiazioni di definita lunghezza d’onda.
L’assorbimento atomico è seguito da un processo di rilassamento che avviene per via non radiante (termica) o radiante (emissione di radiazioni).
L’assorbimento è direttamente proporzionale all’intera popolazione di atomi presenti nel cammino ottico e quindi alla concentrazione dell’elemento nel campione.
Lo spettrofotometro per AA può essere monoraggio e doppio raggio.
Il raggio emesso dalla sorgente attraversa il sistema di atomizzazione, che contiene il campione allo stato di gas atomico, arriva al monocromatore, che elimina le radiazioni che non interessano; poi la radiazione monocromatica passa al rivelatore.
La luce dalla sorgente viene modulata (pulsata) mediante un chopper.
La modulazione viene fatta, in modo da distinguere la luce emessa dalla lampada dalla luce emessa dall’atomo eccitato.
Il sistema doppio raggio consente di compensare le variazioni di intensità della sorgente o di sensibilità del rivelatore.
L’AA è usato per le analisi quantitative, quindi non è necessaria una lampada che emetta in tutto il campo spettrale.
Per questo è indispensabile usare sorgenti che emettano spettri di righe, che hanno bande passanti molto piccole (0,002 nm).
Per evitare che l’energia assorbita dal campione sia troppo bassa rispetto a quella emessa dalla lampada è necessario usare radiazioni molto monocromatiche; le radiazioni della sorgente devono essere molto intense, per compensare le dispersioni di energia che si verificano nel sistema.
La lampada più usata è quella a catodo cavo: costituita da un bulbo in vetro, con finestra di quarzo in cui al suo interno contiene un catodo e un anodo; l’ambiente interno e riempito di gas (Ar o Ne).
Il catodo e costituito da una capsulina che contiene l’elemento caratterizzante della lampada.
Quando viene applicata una d.d.p. agli elettrodi, il gas di riempimento si ionizza (+); gli ioni positivi urtano il catodo provocando l’espulsione degli atomi superficiali, i quali eccitati dal gas di riempimento, ritornano allo stato fondamentale emettendo energia radiante.
Queste lampade possono essere: a singolo elemento o multi elemento, meno sensibili di quello a singolo elemento perché possono dare sovrapposizione fra le righe spettrali.
L’Atomizzazione a fiamma è costituita da un tubo cilindrico diviso in due zone, la camera di nebulizzazione e la camera di premiscelazione; il tutto è collegato ad una testata dove avviene la combustione e l’atomizzazione.
Il campione viene aspirato nel nebulizzatore, trasformato in aerosol e immesso nella camera di premiscelazione, dove si mescola con il gas combustibile e con il gas comburente (ossidante, es.: aria).
Il gas comburente serve per mantenere viva la fiamma, ma funge anche da gas di trasporto nel nebulizzatore; ciò consente di variare il flusso del nebulizzatore senza variare il flusso alla testata. Nella camera di premiscelazione è presente un dispositivo che serve per abbattere le goccioline di soluzione troppo grosse.
La velocità con cui il nebulizzatore aspira deve essere regolata ed ottimizzata qualunque volta che si inizia un’analisi; la velocità non deve superare un certo valore perché abbasserebbe la temperatura della fiamma riducendo l’efficienza di atomizzazione (quindi, la sensibilità dell’analisi).
Tutti i materiali sono inerti.
La testata del bruciatore è in titanio, per resistere alla corrosione e al calore.
Possono essere usati vari tipi di fiamma a seconda dell’elemento da analizzare: aria-acetilene (2300 °C), aria-idrogeno (2050 °C), protossido d’azoto-acetilene (2800 °C) e aria/argon-idrogeno (300-800 °C).
Nei bruciatori con premiscelazione, solo una piccola frazione di soluzione aspirata giunge alla fiamma.
Nei sistemi a navicella è possibile aumentare i limiti di rivelabilità, aumentando la quantità di campione alla fiamma.
Una navicella di tantalio (contiene da pochi μl a 1 ml) può scorrere dentro e fuori la fiamma mediante un sistema meccanico.
Prima si evapora il solvente, ponendo la navicella vicino alla fiamma, poi si spinge la navicella sulla fiamma. Il campione si volatilizza e i vapori atomici intercettano la radiazione proveniente dalla sorgente.
Un sistema di atomizzazione senza fiamma è chiamato “a fornetto di grafite” e la relativa tecnica GFAAS.
Si tratta di un sistema interamente automatizzato, che consente di abbassare notevolmente (1000 volte) i limiti di rilevabilità, inoltre consente di lavorare su aliquote molto piccole di campione.
Un piccolo volume di campione viene introdotto nel tubo di grafite, posto sul cammino ottico della radiazione emessa dalla sorgente.
Nel tubo fluisce un gas inerte, che espelle l’aria rendendo l’atmosfera non ossidante e quindi adatta a far rimanere gli atomi del campione allo stato fondamentale.
Il tubo viene riscaldato elettricamente secondo un programma a tre stadi, condotti a temperature crescenti:
· evaporazione del solvente
· incenerimento
· atomizzazione
La misura di assorbimento viene fatta sui vapori atomici che si liberano rapidamente nello stadio finale del riscaldamento. Il segnale che si ottiene è un picco la cui area (altezza) è direttamente proporzionale alla massa dell’analita.

La cromatografia
E’ una tecnica di separazione di vari componenti di una miscela.
Supponiamo di avere una colonna riempita uniformemente di un materiale solido in granuli di dimensioni omogenee (la cosiddetta fase stazionaria, o fase fissa).
All'inizio della colonna si deposita la miscela contenente le sostanze da separare.
Si fa scorrere poi un solvente (la fase mobile, detta eluente): la fase mobile trascinerà in modo diverso le diverse sostanze lungo la colonna, a seconda della loro affinità verso le due fasi.
Tale effetto può essere ricostruito, anche numericamente, immaginando che nei vari strati della colonna si effettui una serie di estrazioni successive in cui si raggiunge l'equilibrio corrispondente al coefficiente di distribuzione.
Effettuando, infatti, una simulazione numerica di tale successione di “micro-equilibri” si ottengono facilmente grafici che mostrano il procedere della separazione, con la distribuzione di ogni sostanza secondo i picchi di concentrazione (di forma 'gaussiana') tipica dei cromatogrammi:
Con il procedere della separazione, le sostanze usciranno dalla colonna dopo il passaggio di un certo tempo (tempo di ritenzione) durante il quale è fluito un certo volume di solvente (volume di ritenzione).
Se si misura la concentrazione delle sostanze in uscita dalla colonna si ottiene il cosiddetto cromatogramma (che riporta le concentrazioni di sostanza in uscita in funzione del tempo o del volume di eluente):

Cromatografia in fase liquida ad elevate prestazioni (HPLC)
E’una tecnica molto utilizzata per l’analisi dei piretroidi e consiste nella versione strumentale della cromatografia su colonna.
L'eluente viene fatto fluire ad alta pressione e le sostanze in uscita vengono rilevate strumentalmente con opportuni dispositivi.

Gascromatografia (GC)
Nella tecnica gas-cromatografica la fase mobile é un gas che fluisce attraverso una colonna in cui si trova la fase stazionaria, la quale può essere un solido granulare poroso oppure un liquido.
Secondo lo stato fisico della fase stazionaria, la gas-cromatografia si può suddividere in cromatografia gas solido (GSC) e in cromatografia gas liquido (GLC).
Questo metodo, che ha conosciuto un grande sviluppo a partire dagli anni ‘60, conserva tuttora una posizione di primo piano come tecnica analitica.
L’unica limitazione della gas-cromatografia é la necessità di rendere volatili i campioni da analizzare, per cui in alcuni casi essa é soppiantata dall’HPLC (cromatografia liquida ad alto potere risolutivo).
I meccanismi di separazione relativi alla GC sono sostanzialmente due: ripartizione e adsorbimento. Il primo nel caso che la fase stazionaria sia liquida, il secondo quando é solida.

Vediamo ora lo schema essenziale dello strumento, il gas-cromatografo:
1) Sistema di alimentazione gas di trasporto (carrier).
Si tratta di bombole di gas inerte (azoto, elio, argon), talvolta può essere utilizzato anche l’idrogeno.
Lo scopo principale é quello di trascinare i componenti della miscela in analisi lungo la colonna cromatografica.
2) Sistema di alimentazione dei gas per il rivelatore FID.
Qualora si utilizzi un rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID) è necessario alimentare un combustibile e di un comburente (ad esempio idrogeno ed aria).
3) Rivelatore.
I dispositivi in grado di rivelare la presenza di una sostanza estranea nel gas di trasporto, a valle della colonna, possono dividersi in universali e selettivi.
I primi consentono di individuare tutti i componenti di una miscela, i secondi rivelano solo particolari categorie di composti.
Tra i rivelatori più usati, si segnalano:
Rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID)
Si tratta di un rivelatore universale ma distruttivo in quanto i campioni vengono bruciati per ottenerne la trasformazione in ioni allo stato gassoso.
Questo rivelatore é di tipo universale, sono poche infatti le sostanze che hanno potenziali di ionizzazione così alti da non poter essere ionizzate nelle normali condizioni di lavoro (tra queste abbiamo acqua, solfuro di carbonio, anidride carbonica, ossido di carbonio, ossidi di azoto,ammoniaca, acido solfidrico, biossido di zolfo, acido formico, gas nobili, azoto e ossigeno).
La sensibilità di questo rivelatore é molto elevata, infatti si può arrivare al nanogrammo.
– Rivelatore a cattura di elettroni (ECD)
Si tratta di un rivelatore selettivo e non distruttivo.
Esso é costituito da una sorgente radioattiva (63Ni) che emette radiazioni beta (elettroni).
Gli elettroni, detti primari, emessi dalla sorgente, vengono a trovarsi in un
campo elettrico di cui la sorgente costituisce l’anodo, mentre il catodo si trova verso l’uscita. Gli elettroni primari colpiscono il carrier formando ioni positivi ed elettroni secondari.
Il flusso di queste cariche costituisce la corrente di fondo e dipende dalla differenza di potenziale tra i due elettrodi. Quando insieme al carrier é presente un’altra sostanza elettroaffine, cioè in grado di catturare gli elettroni secondari, si verifica una diminuzione di corrente di fondo.
La corrente, elaborata, amplificata e misurata, viene inviata ad un registratore.
I limiti di rilevabilità possono essere molto bassi, ad esempio per i pesticidi cloro-organici o derivati del fosforo, si può arrivare a rivelare i picogrammi.
Le sostanze maggiormente rivelate sono quelle contenenti alogeni ed è molto utilizzato per l’analisi dei preservanti organici per legno.
– Rivelatore a a termoconducibilità (HWD)
Si tratta di un rivelatore universale e non distruttivo.
Si basa su due sensori contenenti un filamento la cui resistenza elettrica varia al variare della temperatura.
La temperatura dipende a sua volta dalla conducibilità termica dei gas con cui sono a contatto i filamenti (e che varia con la composizione dei gas stessi).
Un sensore è lambito dal carrier puro mentre l'altro è sull'uscita della colonna: un accurato sistema elettrico rileva ed amplifica le differenze dei due segnali.
La sensibilità di questo rivelatore non è elevata ed inoltre costringe all'uso di carrier più costosi (ad esempio elio e argon).

4) Registratore e integratore.
Il segnale in uscita dal rivelatore passa ad un registratore che ha il compito di realizzare il tracciato cromatografico.
I moderni strumenti sono corredati anche di un integratore che permette il calcolo automatico delle aree dei picchi, operazione indispensabile per effettuare analisi di tipo quantitativo.

Alcune Norme di riferimento
EN 212 UNI EN 212:2004 Preservanti del legno – Guida generale per il campionamento e la preparazione dei preservanti e del legno trattato per analisi (particolarmente indicata per i sali)
UNI EN 49-1:1998 Preservanti del legno – Determinazione dell'efficacia protettiva contro Anobium punctatum (De Geer) mediante deposizione di uova e soppravvivenza delle larve – Applicazione mediante impregnazione (Metodo di laboratorio).
UNI EN 460:1996 Durabilità del legno e dei prodotti a base di legno. Durabilità naturale del legno massiccio. Guida ai requisiti di durabilità per legno da utilizzare nelle classi di rischio.
UNI EN 599-1:1999 Durabilita' del legno e dei prodotti a base di legno – Prestazioni dei preservanti del legno, utilizzati a scopo preventivo, determinate mediante prove biologiche – Specifiche secondo le classi di rischio (consigliata per la determinazione della ritenzione di protettivo)
UNI EN 351-1:1998 Durabilita' del legno e dei prodotti a base di legno – Legno massiccio trattato con i preservanti – Classificazione di penetrazione e ritenzione del preservante

* Divisione tecnologia del legno – Istituto Giordano

Per ulteriori informazioni
www.giordano.it
 
Fonte: www.infobuild.it
 

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