‘L’arte si nutre di sogni, non di paradigmi’. Mari a Cersaie

Autocritica feroce, studio della materia, più che della teoria. Questi, secondo Enzo Mari, i presupposti per diventare buoni designer. E nessun compromesso con la standardizzazione, con la logica del profitto ad ogni costo. A Cersaie la lezione invertita “Teoria ed etica del design”
“Consegniamo il Premio Nobel a qualsiasi bambino che abbia compiuto l’età di due anni”. Parte da questa provocazione la lezione “Teoria ed etica del design”, che l’altra mattina ha visto il celebre designer Enzo Mari confrontarsi, a Cersaie, con una platea di giovanissimi studenti di architettura. Una lezione invertita, essendo parte integrante dell’incontro le domande rivolte dagli allievi al maestro. Domande semplici, su stessa richiesta di Mari, eppure essenziali, per chi si affaccia oggi alla professione: come tradurre un’idea in un progetto “perfetto”? E soprattutto: come si può rimanere designer, rimanere artisti, in un mondo costretto a misurarsi con il profitto, l’industria e la sua necessità di “standardizzare”?

“Un bambino di due anni – ha risposto Mari – è perfettamente in grado, da solo, di imparare via via a conoscere il tempo, lo spazio, la luce. Partendo da zero, da una situazione in cui anche la consapevolezza del proprio io, del proprio corpo, è piuttosto vaga. Si tratta di un fenomeno impressionante. La sua creatività, se proprio vogliamo utilizzare questa oscena parola, è di gran lunga superiore a quella di un Bach, di un Einstein. Purtroppo, con il tempo, questa capacità viene meno. A causa del mondo che ci circonda, che ci impone regole, paradigmi che non hanno nessuna relazione con la prassi, con l’esperienza”.

Questo il primo segreto per diventare buoni designer. “Cavarsela da soli”. Partendo dal presupposto che ogni teoria non è altro – non dovrebbe essere altro – che la descrizione critica di una prassi. Mentre la nostra stessa conoscenza non è altro che una somma di “elenchi”, stratificati storicamente, alla base dei quali c’è sempre un’esperienza pratica, di rapporto diretto con la materia.

“Il bambino, nell’elaborare i primi elenchi, le prime esperienze pratiche, comincia a teorizzare. Ma lo fa aggiungendo alla descrizione nuova esperienza, dalla quale nasce una descrizione più complessa, che a sua volta si arricchisce grazie all’esperienza. Se volete diventare buoni designer – avverte Mari – non dovete affidarvi alle teorie, ma a ciò che deve essere ancora descritto. La scuola, in questo, ha una grande responsabilità. Purtroppo bisogna ammettere che esistono buoni designer non grazie alla scuola, ma nonostante la scuola. E questo vale in modo particolare per l’università”.

Il punto, ha osservato Mari, è che non possono essere i “paradigmi” a muovere l’arte. Quelli vanno benissimo per la scienza.

“Ma l’arte si nutre di sogni, di idee e ideologie. Non illudetevi che un corso di tre anni vi dia gli strumenti per diventare grandi. I grandi sono coloro che si esercitano 8 ore ogni giorno, come i celebri compositori o direttori d’orchestra. Per i grandi la scuola finisce il giorno in cui finisce la vita. Io stesso non credo di essere andato oltre al secondo stupefacente atto messo in pratica dal bimbo di due anni, quello di descrivere un’esperienza pratica, in linea di principio assolutamente casuale”.

E dall’idea allo schizzo, fino al modello, il segreto per ottenere dei buoni risultati – se non proprio il progetto perfetto – è quello di mettere da parte l’idea di guadagno, di produrre utile in tempi brevi. Mettere da parte, insomma, quella che è la caratteristica strutturale dell’industria, la necessità di produrre elementi in serie, di spendere il tempo necessario per progettarli, all’inizio, ma non più del tempo necessario.

“Io nel mio lavoro mi comporto così – ribatte Mari – faccio un’ipotesi, poi la guardo, la critico ferocemente. Tutto quello che mi appare un difetto lo elimino, in ordine di gravità. In casi rarissimi ho la sensazione che la prima idea sia quella giusta, e allora mi viene un sospetto, che mi porta a mettere sul piatto un’altra idea. Poi le modellizzo entrambe, le costruisco realmente. Infine costruisco un terzo modello. Sono i principi della dialettica: tesi, antitesi, sintesi”.

Difficile chiedere a Mari di venire a patti con il mercato. Difficile – ma il coraggio non è mancato agli studenti intervenuti stamane a Palazzo dei Congressi – chiedere a Mari di tenere conto di un mondo in cui l’economia di mercato, i tempi di produzione, la standardizzazione, hanno un loro peso, anche per i designer, soprattutto per i giovani designer.

“Io non ho scelto di fare l’artista. Provengo da una famiglia molto povera, sono stato costretto a interrompere gli studi classici e a mantenere 5 persone per molti anni. Lavorando duramente, ho messo da parte quel minimo di risorse utili per iscriversi all’università, dato che la mia grande e unica passione è sempre stata quella di conoscere, di capire. Poi ho scoperto che per iscriversi all’università era necessario il diploma. Così ho scelto l’accademia, che dava la possibilità di iscriversi anche senza diploma. E così mi sono ritrovato artista. L’unica cosa che davvero conta è riferirsi a quei valori fondanti della cultura occidentale. Non quelli che hanno prodotto rapina, ma quelli di Platone e, poi, di Aristotele, che a differenza del suo maestro riteneva che le idee, per quanto perfette, non fossero sufficienti. Bisognava indagare la materia, i dettagli. Questi sono i maestri”.

Etica del design, dunque, quale antidoto – unico possibile antidoto – ai condizionamenti imposti dal mercato. Forse anche come unico antidoto per primeggiare davvero, nella professione e, in definitiva, sul mercato. E la qualità?

“La qualità è un fatto oggettivo, e nasce dal confronto. Se chiedessimo ai 100 migliori designer del mondo di fare una lista delle 100 migliori opere del mondo, otterremmo liste molto simili, se non identiche. Non esiste una spiegazione convincente a questo fenomeno, se non quella per cui la qualità è un fatto oggettivo. E sono queste le opere con cui chiunque voglia eccellere in questo lavoro deve misurarsi. Se non si raggiunge l’apice, poco importa. È già molto, moltissimo, sapere di trovarsi sulla buona strada”.

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